Diretto da Elio Petri nel 1973, La proprietà non è più un furto è l’ultimo capitolo della trilogia dedicata al potere. Questo film arriva dopo l’analisi del potere istituzionale di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e dopo quella del potere “padronale” di La classe operaia va in paradiso (1971). Alla sua uscita venne aspramente criticato dalla sinistra dell’epoca e (cosa che fece più male al regista) letteralmente massacrato dai propri colleghi. Se apparentemente il film sembra meno riuscito dei due precedenti (e in effetti lo è), in realtà si tratta di un’opera profetica in grado di delineare, seppur in maniera confusa e approssimativa, le dinamiche socio-economiche di un’Italia proiettata nei rampanti anni ’80. Volutamente sgradevole e “volgare” La proprietà non è più un furto rappresenta lo specchio incrinato di una società traumatizzata dall’improvvisa mancanza di benessere, alla disperata ricerca di quel “boom” che pochi anni prima ha fatto dell’Italia uno dei paesi più industrializzati d’Europa.
Il film girato nell’anno della recessione, quello delle domeniche a piedi, delle insegne dei negozi spente e dei cinema senza ultimo spettacolo per risparmiare sul consumo energetico, è un ritratto a tinte fosche di una società che sta abbandonando l’odio di classe per entrare nella spirale perversa dell’ “invidia di classe”. È lo stesso protagonista, il ragionier Total (che porta il nome di una multinazionale del petrolio e che è allergico al denaro), che dopo i titoli di testa, in una finestra di teatro brechtiano, si presenta con le seguenti parole: «Io, ragionier Total, non sono diverso da voi…nè voi siete diversi da me; siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento. Io so che non potrei mai avere nulla di più di quanto oggi ho, fino alla morte: ma nessuno di voi potrà avere nulla di più di quanto ha. Certamente molti di voi avranno più di me, come molti hanno meno», ed è sempre lui a pronunciare poco dopo una frase che ha il sapore tanto della provocazione quanto della sintesi programmatica dell’intero film: «L’egoismo è il sentimento fondamentale della religione della proprietà».
Il giovane ragionier Total (Flavio Bucci), allergico al denaro altrui fino a violente forme di irritazione cutanea, decide di abbandonare il posto in banca per dedicarsi interamente alla persecuzione di un ricco macellaio romano (Ugo Tognazzi). Marxista-mandrakista, come si definisce all’ombra di un manifesto di Mandrake il mago, il ragioniere non lesina dispetti per angosciare il macellaio: gli ruba il coltello, il cappello, i gioielli dell’amante/proprietà Anita (Daria Nicolodi), finché si mette alla scuola di un ladro esperto detto “Alberatone” (Mario Scaccia), per diventare sempre più pericoloso. Ma Total è destinato a scoprire che i furtarelli non scuotono la fiduciosa tracotanza di un capitalista, anzi l’attività dei ladri non è altro che una modesta caricatura della lotta di classe e si integra nel sistema. Cosi il ladro professionista muore in questura, mentre Total fa anche lui una brutta fine…
Impregnato di umori sinistri e bizzarri, La proprietà non è più un furto ha un impianto scenico dichiaratamente espressionista, innervato di quell’atteggiamento apocalittico e messianico (cioè due modi di percepire la realtà estremamente emozionali e intuitivi) che nega in partenza ogni analisi razionale, per rappresentare il proprio assunto sotto forma di visioni soggettive altamente simboliche e fortemente alterate e deformate. In quest’ottica si inserisce la scelta di evocare il teatro di Bertold Brecht e di mettere in contatto diretto, in uno spazio scenico oscuro e inquietante, l’attore con lo spettatore, secondo una dinamica biunivoca in cui i ruoli sono dichiaratamente interscambiabili. Il quadro di Renzo Vespignani viene prima scomposto sui titoli di testa attraverso i vari dettagli, per poi essere nuovamente ricomposto al termine della sequenza e mostrare maschere in disfacimento che, liquefatte, versano i propri umori sulle banconote sottostanti. Il quadro espressionista, e i monologhi dei personaggi, sono le due componenti della maschera (quella che con la stessa ambiguità permette a Mario Scaccia di recitare con il volto per metà dipinto da uomo e per metà da donna) di un carnevale finito (quello del benessere): i coriandoli sparsi sul terreno diventano banconote, le maschere indossate diventano truci espressioni cariche di odio e rancore, e, mentre la “recita” sta finendo, si odono in lontananza gli echi di rantoli, gemiti, ansimi e respiri condensati nella musica acre e sensuale di Ennio Morricone.
Illuminato (o per meglio dire “oscurato”) dalla fotografia plumbea di Luigi Kuveiller, La proprietà non è più un furto è un film dall’andamento discontinuo che alterna momenti efficaci e feroci a spaventose cadute di tono qualunquiste. La luce livida e pastosa circonda la disperazione del giovane ragioniere: un uomo malato, contagiato da un morbo incomprensibile che si presenta sotto forma di allergia al denaro, che si gratta morbosamente, come a volersi staccare di dosso quella parte di pelle che entra in contatto con i soldi; un uomo, che ruba in maniera nevrotica e ossessiva, nel tentativo disperato e improbabile di mettere sul lastrico il proprio antagonista, incarnato nella figura simbolica di un macellaio laido e arrogante che vende con la stessa disinvoltura la carne degli animali e quella della sua donna. Proprio il ruolo femminile di Anita interpretato con passione e audacia da Daria Nicolodi, rappresenta uno dei terminali della pellicola, quello della sessualità, espressa attraverso la trasformazione in oggetto da parte del potere e del consumismo. Rivolta verso il pubblico Anita prima dice: «Io sono tanti pezzi, tanti pezzi di una cosa», mentre subito dopo denuncia la sua condizione di merce/bene di consumo: «Io appartengo alla macelleria, mi ha preso dalla vetrina».
La donna, che si mostra vestita da prostituta seduta a gambe aperte su uno sgabello incarna perfettamente il ruolo femminile tipico dell’espressionismo attraverso l’assunzione di un’identità legata al mondo della natura e alla sessualità; un essere inferiore all’uomo perché nella filosofia espressionista la donna fa parte della natura empirica, del mondo delle apparenze, in contrapposizione alla razionalità e concretezza dell’uomo che la possiede. Se da un lato, dunque, il film di Petri sembra affondare il bisturi della critica e della denuncia verso una società “da fumetto” (come ben evidenzia la lunga sequenza della “fiera della sicurezza”), dall’altro si dilunga in una sterile quanto prevedibile sovrapposizione tra carne e sesso, tra potere e virilità, tra forza e possesso, evidenziando tutti i limiti di una pellicola non all’altezza delle ambizioni.
La proprietà non è più un furto, è infatti, appesantito da una verbosità moralista che ha l’intento di rendere edotto il popolo italiano sulla malvagità della classe dominante e del denaro, mentre Petri si fa sfuggire di mano il film, chiudendo la parabola con un monologo tanto assurdo, quanto pleonastico sul ladrocinio: Paco l’”argentino” (Gigi Proietti), ladro della capitale tenta, inutilmente, di spiegare come la struttura sociale si fondi sull’operato dei ladruncoli (e di come non si possa fare a meno di loro per mantenere l’equilibrio socio-economico). Elio Petri, nella seconda metà non controlla più la propria opera, che perde tutta la forza e l’incisività dei primi cinquanta minuti (la magistrale sequenza, della rapina in banca, che apre il film), e si perde in un rivolo di temi, simboli e argomenti appena abbozzati, senza mai riuscire ad arrivare al cuore del problema. Il film dunque affonda nel personale (sono ancora gli anni de “il personale è politico”), e denuncia tutto il malessere del regista, frutto anche di una confusione ideologica e delle continue lacerazioni interne al PCI, che lo colpiscono profondamente e che sfociano in una bulimia tematico-argomentativa gravata dalla sovrabbondanza delle intenzioni e da una retorica del disgusto troppo superficiale per essere credibile.
Quello che rimane centrale nell’economia del film è però la contraddizione che sta alla base della dialettica tra essere e avere, in cui il denaro diventa motore delle relazioni personali, economiche e sociali. Il ragionier Total, non esita a bruciare banconote e a buttarle nel gabinetto, sfondando uno dei tabù della società del consumismo, cioè quello secondo cui buttare il denaro è un vero e proprio sacrilegio. Nel gesto di Total però non c’è né assurdità né provocazione, ma ragionevolezza, perché la sua ricerca è volta a trovare il punto di rottura dell’odio di classe e al contempo a sondare, parossisticamente, l’animo umano al fine di trovare le ragioni dell’egoismo. Ecco perché egli pronuncia la frase che è il cuore del film, quella secondo cui (anticipando di ben dieci anni L’argent di Robert Bresson), il denaro è un male inestirpabile, che contamina l’uomo e ne contagia i comportamenti: «La proprietà più che un furto è una malattia…essere o avere… Io vorrei essere… e avere, ma so che è impossibile…è questa la malattia». •
Fabrizio Fogliato
La proprietà non è più un furto
Regia: Elio Petri
Soggetto, sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro
Fotografia: Luigi Kuveiller
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Musica: Ennio Morricone
Suono: Mario Bramonti
Costumi, scenografie: Gianni Polidori
Interpreti: Ugo Tognazzi (macellaio), Flavio Bucci (rag. Total), Daria Nicolodi (Anita), Luigi Proietti (argentino, oratore funebre dei ladri), Mario Scaccia (Alessandro Marzo, detto “Albertone”), Orazio Orlando (brigadiere Pirelli), Salvo Randone (padre Total), Julien Guiomar (direttore di banca), Jacques Herlin (impiegato di banca), Ada Pometti, Cecilia Polizzi (Mafalda la ricettatrice), Luigi Antonio Guerra, Pier Luigi D’Orazio, Gino Milli (Zagané), Ettore Garofalo (Bocio)
Produzione: Quasars Film Company, Labrador Films, Paris, Studio du Dragon, Paris, S.N. Cinévog, Paris
Distribuzione: Titanus
Visto di censura: n. 62682 del 28-06-1973
Paese: Italia, Francia
Anno: 1973
Durata: 126′