L’AMORE AL TEMPO DELLA GUERRA
Gitmek – “Benim Marlon ve Brandom” | Hüseyin Karabey | Turchia/2008
da Rapporto Confidenziale numero37
Nella vita reale, Hama Ali, carismatico attore noto per essere il Superman iracheno, incontra la collega turca Ayça su un set e tra loro inizia una storia d’amore.
Terminato il lavoro insieme, separati e distanti, Hama Ali spedisce a Ayça video da lui realizzati in cui ribadisce il suo sentimento e il desiderio di raggiungerla a Istanbul, appena la guerra in corso nel suo Paese glielo permetterà. I video testimoniano la situazione tragica della sua zona, la vita quotidiana, e il suo sentimento per lei.
Sentendosi soffocata dalla sua stessa città e dall’indifferenza generale per ciò che sta accadendo in Irak, Ayça decide di raggiungere il suo amato. Mentre tutti tentano di scappare dall’Est all’Ovest, lei tenta il percorso contrario, aiutata nella pianificazione del viaggio da un immigrato clandestino che vive a Istanbul.
«Mi manchi, ti bacio e mi manchi davvero. Tu sei la donna più bella al mondo. La mia donna coraggiosa. Volerei da te sulle nuvole, sulle nuvole bianche di Istanbul, per venire a trovarti, a baciarti.
Però, tesoro, devi avere un po’ di pazienza. Sai, combatteremo con gli Americani contro il regime di Saddam. Ma tu mi conosci: verrò da te, hai la mia parola. Verrò da te quando sarò libero»
(Hama Ali Kahn, in uno dei video spediti a Ayça)
Partendo da un’intenzione precisa, quella di raccontare la realtà della guerra e le sue conseguenze sulla vita quotidiana delle persone, Hüseyin Karabey segue le vere vicende, da lui ricostruite fedelmente, di Ayça Damgaci, attrice turca, e Hama Ali, attore curdo iracheno, conosciutisi girando un film e ora separati dalla guerra.
Ayça e Hama Ali sono due personaggi normali che, come tutte le persone normali, hanno una storia straordinaria da raccontare.
È il 2001, alla vigilia della cosiddetta guerra preventiva voluta da George W. Bush e attuata dagli eserciti statunitense e britannico che coinvolgerà l’Irak, sotto il regime di Saddam Hussein.
Le frontiere sono chiuse, e quando Ayça non riesce più ad accettare la distanza dall’amato, e i romantici video che lui le manda attraverso un camionista suo conoscente altro non fanno che aumentare il senso della distanza, decide, contro tutti, di partire per raggiungerlo.
Aiutata da un immigrato clandestino curdo a Istanbul, che poi vedrà in televisione arrestato unitamente ad altre persone nella stessa condizione, parte con quell’incoscienza e quel coraggio che solo l’amore possono dettare.
Con lo spirito critico di chi conosce la guerra, la politica e le sue storture, avendole anche vissute sulla sua pelle, e con l’animo gentile di chi conosce l’amore e sa che è l’unica salvezza per il genere umano, Karabey incastona una situazione (il viaggio per ritrovare l’amato) nell’altra (la guerra, l’isolamento) attento a che una non oscuri mai l’altra. Mescola anche con attenzione i linguaggi del documentario e della finzione (nella ricostruzione della storia), facendosi aiutare nella scrittura da Ayça Damgaci stessa e studiando il materiale personale che lei gli ha affidato.
Non sarà un viaggio facile quello di Ayça e chissà se arriverà mai a raggiungere il suo scopo. Ma, spesso, di un viaggio conta più il percorso, con i suoi imprevisti, che la destinazione stessa. E il percorso di Ayça sarà pieno di ostacoli ma anche di incontri – con persone gentili di quella gentilezza naturale che non è mai solo frutto della condivisione di un dramma – che le faranno capire come non sia sola nella sua condizione di persona separata dal bene amato e impossibilitata a muoversi liberamente.
Hüseyin Karabey segue il percorso con una troupe ridotta al minimo, concedendosi di farsi distrarre dalla realtà ogni qualvolta irrompe nella lavorazione del film. Ma, infine, tutto è reale: il viaggio, gli incontri e i luoghi. E quando non sono reali, sono comunque estremamente realistici grazie alla lunga militanza nel documentario di Karabey, attivo nell’ambito dei movimenti per la democrazia e per i diritti umani e che per questo ha conosciuto il carcere.
La sua intenzione è quella di usare il cinema per raccontare l’assurdità della guerra, la sistematica violazione dei diritti umani in nome della difesa di frontiere artificiali, la misera condizione di coloro che quelle frontiere riescono ad attraversarle per ritrovarsi infine clandestine, e lo fa benissimo. Usando, mai in modo strumentale, la storia dei suoi due personaggi principali come chiave per aprire la porta all’empatia a chi guarda, non cede a compromessi con la situazione in cui sono immersi.
Senza trascurare mai il contagioso ottimismo che anima i suoi personaggi e che accende anche il suo stesso sguardo sulle situazioni, trasferendolo allo spettatore che non potrà fare altro che abbandonarsi alla storia ponendosi più di una domanda sul suo stesso spazio nel mondo, coniuga anche ironia e dramma, creando una sorta di reportage emotivo che non conosce un solo momento di artificiosità. Inoltre, basandosi su una guerra specifica, finisce per raccontare una storia universale, che riunisce tutti i conflitti, veri e metaforici, in corso.
«I tuoi amici sono in visita?»
«No, vivono qui. E ci sono anche altri due amici che ora sono al lavoro. Tutte le stanze sono così. Ce ne sono cinquanta, con più di 400 persone a viverci. E ci sono stanze più piccole e più affollate di questa»
(Soran, immigrato clandestino curdo, nello spiegare a Ayça la sua situazione abitativa)
Gitmek – “Benim Marlon ve Brandom” (“Andare, il mio Marlon il mio Brando”, la traduzione letterale – il titolo viene da una frase scritta in una lettera appassionata da Ayça per Hama Ali – è il primo, potente lungometraggio di un regista dallo sguardo attento e molto personale, onesto e per nulla incline al compromesso, degno di venire annoverato tra i più importanti del cinema europeo di oggi.
Mentre è lecito attendere con impazienza il suo secondo lungometraggio Sesime Gel (Come To My Voice), che verrà presentato il prossimo anno a vari festival prima di entrare, si spera, in distribuzione, vale la pena di guardare i due suoi documentari reperibili in rete: Sessiz Ölüm – Silent Death, sul tema delle carceri europee, e Hiçbir Karanlık Unutturamaz – No Darkness Will Make Us Forget (quest’ultimo presente in Cineteca di Rapporto Confidenziale) che illustra con i bellissimi disegni di Aksel Zeydan Göz il funerale di Hrant Dink, un giornalista armeno che abitava a Istanbul ucciso da un diciassettenne per motivi nazionalistici. ■
Roberto Rippa
Gitmek – “Benim Marlon ve Brandom”
Titolo internazionale: To Go – “My Marlon and Brando”
Regia, produzione: Hüseyin Karabey • Sceneggiatura: Ayça Damgaci, Hüseyin Karabey • Fotografia: Emre Tanyldiz • Montaggio: Mary Stephen • Scenografie: Alper Yanar • Costumi: Yasemin Taskin • Musiche: Kemal Sahir Gürel, Erdal Güney, Hüseyin Yıldız • Suono: Mohammed Mokhtari • Produzione: Asi Film, Ajans 21, Motel Film • Produttori: Hüseyin Karabey, Lucinda Englehart, Sophie Lorant, Hary Sutherland, Dennis Tal • Interpreti principali: Ayça Damgaci (Ayça), Hama Ali Kahn (Hama Ali), Cengiz Bozkurt (Azad), Nesrin Cevadzade (Derya), Ani Ippekaya (Ariknas), Emrah Ozdemir (Soran), Omer Sahin (Halil) • Produzione: Asi Film, Ajans 21, Motel Film • Lingua: inglese, curdo, turco • Paese: Turchia • Anno: 2008 • Durata: 93’
www.asifilm.com
INTERVISTA a HÜSEYIN KARABEY