Il meglio del 2011 – Matteo Contin

Il 2011 va in archivio. È stato un anno complicato e triste sotto molti punti di vista. Noi abbiamo il cinema come medicina, come cura alle sofferenze della Vita e della Storia. Quest’anno abbiamo voluto giocare con la nostra redazione, con le persone che nell’ultimo anno hanno scritto per Rapporto Confidenziale e con una serie di amici, collaboratori e personalità che hanno accettato l’ingrato compito di stilare un elenco dei 5 migliori film usciti, o visti per la prima volta, nell’anno solare 2011. Ne è uscito un elenco corposo ed originale che vogliamo condividere con i nostri lettori, con il fine di fornire qualche consiglio per la visione che possa rischiarare il 2012. Alla faccia di ogni profezia catastrofica.

 

Matteo Contin  collaboratore di RC

 

    Drive
di Nicolas Winding Refn
(USA/2011)

Su Drive ci sarebbero da dire tante cose, ma mi piace pensarlo, in fondo, come un film romantico. Non serve mascherarlo, perché la matrice romantica è lì, ed è al centro della storia, motore che porta avanti tutta la vita del silenzioso interprete principale. Ce lo mostra chiaramente una sequenza (forse la più bella dell’intero film) in cui il protagonista si ritrova in ascensore con Irene e un killer intenzionato a ucciderlo. Nello spazio di un bacio inaspettato, pulsante, vero, si consuma l’attimo infinito dell’amore tra due animali chiusi in gabbia. E quando il bacio finisce e cominciano i pugni e poi i calci fino a distruggere completamente il volto dell’assassino, l’amore non cambia, perché quello è l’amore.

     
    Pina
di Wim Wenders
(Germania-Francia-UK/2011)

L’ultimo lavoro di Wim Wenders è una biografia per sensazioni ed emozioni. A Wenders non serviva altro che mettersi al servizio delle coreografie di Pina Bausch, ma il regista tedesco lo fa con un entusiasmo che credevamo perso. Il documentario vive di suggestioni ed atmosfere, elimina le parole e si concentra sui gesti, riporta in vita in una forma nuova il mondo della Bausch e lo fa con delle immagini potenti e vibranti.

     
    Meek’s Cutoff
di Kelly Reichardt
(USA/2010)

I primi minuti di Meek’s Cutoff estraniano lo spettatore, catapultandolo in un luogo sconosciuto e nuovo. Un luogo già visto, visitato e conosciuto, un luogo cinematografico oltre che geografico, un ambiente codificato nella sua vegetazione, nel suo suolo e nel suo cielo: il selvaggio west. E i primi minuti della pellicola disorientano chi guarda perché lo catapultano in un west tutto nuovo, completamente rinnovato nella sua rappresentazione e nei suoi significati, un west privato totalmente della sua epica (anche dell’epica dei perdenti e degli emarginati), dove sopravvivono solo la miseria e le paure dell’uomo. Quello descritto dalla regista americana Kelly Reichardt è un west anti-panoramico, incorniciato in un 4:3 che, come una scatola, intrappola i protagonisti in una natura che li sovrasta e che non lascia loro la possibilità di vedere oltre ai loro passi e a quelli del loro cavallo. I personaggi sono rinchiusi tra un deserto spigoloso e un cielo immenso nelle altezze, ma non nella profondità: è un infinito verticale, un infinito impossibile, privo di sogni, spogliato di ogni speranza.

     
    Greenberg (Lo stravagante mondo di Greenberg)
di Noah Baumbach
(USA/2010)

Cos’ha di stravagante il mondo di Roger Greenberg? Assolutamente nulla. Il titolo italiano porta fuori strada e cerca far diventare commedia il film con il personaggio più sgradevole dell’anno cinematografico. Colpa forse del protagonista Ben Stiller, che invece dimostra l’inedita capacità di gestire un personaggio scomodo e antipatico. Lo stravagante mondo di Greenberg non è per nulla stravagante, e questo lo si capisce facilmente. Ma è un mondo comunque interessante, che il cinema di Baumbach esplora con coraggio ed amore per i suoi personaggi insicuri.

     
    Jûsan-nin no shikaku (13 assassini)
di Takashi Miike
(Giappone-UK/2010)

Il film di Miike sembra essere diviso nettamente in due capitoli: il primo con l’introduzione dei personaggi e del contesto, e il secondo tutto focalizzato sulla battaglia. La sensazione è invece quella di un secondo capitolo che sembra divorare il primo tempo, come se volesse erodere frame dopo frame lo spazio lasciato alla parola. Miike orchestra l’ora finale con grande ritmo ma eliminando l’epica dei samurai, descrivendo queste figure eroiche nella maniera più umana possibile (idea amplificata tra l’altro proprio dall’ambientazione fangosa), dipingendoli addirittura con dei tratti psicotici che demistificano l’aura mitica del samurai.

 

Menzione speciale: This Must Be The Place di Paolo Sorrentino (Italia-Francia-Irlanda /2011). Avremmo tutti voluto che l’esordio americano di Paolo Sorrentino fosse migliore di quello che in realtà è. Mi è piaciuto, l’ho amato, perché quando aspetti una cosa da tanto tempo te ne innamori così tanto che i difetti te li dimentichi (o fai finta di non vederli). Questa menzione, più che al film, va a Sorrentino che, oltrepassato l’oceano, si è adagiato sugli stereotipi del cinema americano ma li ha contaminati con fantasmi, false piste, digressioni, strade chiuse e spunti narrativi mai portati a termine. Sorrentino ha evitato le strade semplici e ha osato. Non ci è riuscito del tutto, ma almeno ci ha provato senza giocare al ribasso.

 

Dei titoli selezionati da Matteo Contin fra il meglio del 2011, su RC puoi trovare:
"Meek’s Cutoff" di Kelly Reichardt – recensione a cura di Alessio Galbiati

 

cover image: Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt (USA/2010)

 



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