Till glädje (Verso la gioia) > Ingmar Bergman

Till glädje (Verso la gioia)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1950)
recensione a cura di Leonardo Persia


È l’opera che apre il decennio del riconoscimento bergmaniano, lancinante e sconosciuto capolavoro di “musica nel buio” girato nell’estate del 1949. Till glädje (Verso la gioia) è un film d’amore e un film sull’amore. Il volto di Marta (Maj-britt Nilsson), dolcezza spalancata sull’abisso, decostruisce il femminile agognato negato, spiega il melodramma dispiegandolo, è un simbolo intenso di completezza del maschile incarnato da Stig (lo Stig Olin villain di Crisi e Eva, privato di baffi), timido e spaurito, buono. Tutti e due violinisti nell’orchestra sinfonica di Helsingborg diretta da Sönderby (Victor Sjöström), figura paterna che li osserva, li contempla, sottolineando la profondità del legame. Godard rimase ammaliato dalla scena estiva in cui il vecchio, steso sull’erba, guarda i due «e pensa: “Come descrivere uno spettacolo così bello!”».

La voce off dell’uomo stabilisce un momento di grande importanza, dove l’arte arretra dinanzi alla vita, a una complessità sfuggente mai pienamente descrivibile. L’uomo si dichiara fortunato a non dover essere uno scrittore, per tema di dar voce a tale indicibile sentimento, ma nel contempo, con una geniale opera di sottrazione (un carrello all’indietro che prende pudicamente le distanze), l’autore del film la esprime come meglio non si potrebbe.

Da qui parte la progressiva limpidezza narrativa ed estetica dell’opera bergmaniana, una spoliazione che ne accentuerà tematiche e genio. Adesso ci sono ancora i movimenti di macchina sontuosamente articolati in gru e panoramiche per inseguire i voli dell’orchestra; il montaggio che frana l’azione direttamente in luoghi onirici, simbolici e pericolosi, dentro l’Es, fuori dall’Io. Ad esempio l’ondata che irrompe tra l’esecuzione dell’Inno alla gioia, irruzione dell’acqua come totalità, elemento bergmaniano imprescindibile.

L’autore ha appreso definitivamente la tecnica e se ne serve, leggero e ispirato, per affacciarsi a uno smisurato orizzonte poetico, asciutto quanto più audacemente esteso. Siamo lontani dal cinema letterario di cui hanno parlato i detrattori del cineasta. Spontaneità, libertà e respiro d’esecuzione sono pre-nouvelle vague. Della scena dell’arrivo alla stazione si ricorderà Truffaut per Jules e Jim. E l’imbastitura drammatica del dialogo tra gli amanti, che naturalizza (rende cinema) teatro e letteratura, farà scuola nel moderno cinema francese, Demy e Lelouch compresi. Per non parlare del Godard matrimoniale, che spingerà ancora più a fondo il pedale dell’acceleratore decostruttivo.

L’unione dei due sposi è costruita come un’iniziazione, altalena di prove, in sincronico riflesso con le prove musicali. E di simboli, occultati da una partitura visiva di stati d’animo, dubbi paure resistenze, immessa nello stesso quid narrativo di Eva, il film di Molander scritto da Bergman due anni prima. Dominata da amore, morte e diavolo, l’opera è incorniciata (alla lettera) dalla morte e dalla vita, estensione dell’unione amorosa tra contrari, “matrimonio” tra divinità e il mondo, corpo e spirito, gioia e dolore. Forse la gioia-dolore del finale previsto e non realizzato de Il silenzio. Nel percorrere sette anni d’esistenza della coppia, si articola in un lungo flashback, a sua volta frazionato nelle stagioni atmosferiche, chiaramente estendibili a quelle della vita.

Apertura con la morte, quella di Marta, a seguito dell’esplosione di una stufa a casa dei genitori. Scampano i figli gemelli della coppia, un bimbo e una bimba, anche se completamente illeso risulta soltanto il piccolo. La notizia giunge al marito durante le prove d’orchestra. Dal capo di lui riverso sul tavolo, dissolto nell’immagine e nel suono di un’arpa, inizia a ritroso la storia, dal momento in cui i due si incontrarono in orchestra, assunti all’unisono, con Stig sostituto di un defunto. La ragazza lo invita a casa per il compleanno, esortandolo a tagliare i capelli e a comprarle un regalo. Lui è squattrinato, i soldi li mette lei, profferta non solo amorosa. In un negozio, colpito da un trenino elettrico, Stig acquista un orsetto di peluche per lei che ne resta incantata. Il doppio stupore costituisce il reciproco addio alla fanciullezza.

Che si tratti di un rito di passaggio lo provano ulteriormente il taglio di capelli (poi ricresciuti troppo, noterà Marta, appena prima della tragedia). l’ingresso in una casa di iniziazione (clima orgiastico, prove di incontro/scontro con gli altri), l’incontro con il Male, costituito da un vecchio lercio, Mikael Bo (John Ekman), che gli offre la moglie giovane, Nelly (Margit Carlqvist), e da Marcel, untuoso e fastidioso collega coi baffi (Birger Malmsted) che, come il diavolo, gli appare allo specchio.

L’amore per Marta è sancito da un urlo femmineo di lui, terrorizzato da un incubo post-sbornia, uscita non trionfale dal guscio. I sette anni della relazione indicano invece la completezza, elemento spirituale (il tre), più quello terreno (il quattro), metafora della vita. La quaterna, in Bergman, è chiusa, ancora una volta, dall’elemento cupo che integra il micro/macro-cosmo esistenziale. Anche il matrimonio è da leggersi in questa chiave, conjunctio alchemica in cui dalla morte e dal dolore nasce nuova vita. I figli gemelli costituiscono i due lati dell’esistenza, come l’immagine finale del bambino indica un passo ulteriore verso il Sé trasmutato, completezza ulteriore.

Quando a Marta cominciano a venire le doglie, Stig, campione del dubbio, dell’indecisione e delle paure, si mette a letto inerte e spaventato. La donna commenta che, in certe antiche tribù, è l’uomo a incarnare il travaglio della moglie, urlando in sua vece e ricevendo i complimenti da parte della comunità. Oltre a confermare una chiave di lettura poetico-antropologica dell’insieme, la battuta evoca un mondo di negazione del femminile (della completezza) e di monocromaticità maschile (aspetto mutilato e limitato dell’esistenza).

Anche altrove l’uomo, da intendere quindi come essere non pienamente formato, aveva opposto le sue resistenze: alla gravidanza di lei, al matrimonio, al fallimento di un appena iniziata carriera di solista. “Non mi capacito di chi sono” aveva detto, ubriaco e timido, alla festa di compleanno di Marta. E, rimproverato da lei («Quando parlerai da uomo?»), doveva inevitabilmente intendere, lapsus acustico, superuomo. Il limite della vita è credersi senza limite. Al culmine dell’incanto amoroso, lei dice «È estate, il sole splende, non abbiamo niente di cui preoccuparci». Lui invece: «È una splendida sensazione avere tutto davanti a sé. Non avere limiti».

Di sicuro, l’immagine affezione di Marta, espressione di un cuore palpitante, al momento della promessa di matrimonio in chiesa, è come se cancellasse i dubbi, la crisi. Spalanca la speranza, esprime l’affacciarsi del nuovo in un mondo abbruttito e perduto nel timore e nell’ignavia. Il primo piano dei due all’ospedale, dopo il parto, ravvicinato e silenzioso, è una delle più tenere e profonde scene d’amore mai viste al cinema. Ma inevitabilmente il mondo è diviso tra Bene e Male. Già il ricordo di un piccolo screzio invernale dei due da parte di Sönderby, benché futile e immediatamente risolto, è un indizio.

Il direttore d’orchestra è l’angelo custode dei due, padre putativo su cui Stig sposta rancori e incapacità, coscienza pulita che spinge il ragazzo all’ambizione ma anche all’umiltà («noi secondi siamo altrettanto necessari: niente api operaie, niente alveare»). All’opposto, il trio malefico e lubrico, dove Stig trova rifugio, in fuga da sé stesso. Scivolamento nell’adulterio, nell’horror, nella situazione demoniaca di ambiguità sessuale, costituita dallo smalto che Nelly mette alle unghie di Stig e all’accenno di una partecipazione omosessuale di Marcel. L’androginia, in Bergman, costituisce un rito di passaggio ulteriore, accesso a verità oscure, come quelle a cui accede il Max Von Sydow, vestito da donna, de L’ora del lupo, o il bimbo de Il silenzio, truccato dai clown nani. La loro frequentazione spinge Stig a inquinare il rapporto con la moglie. A tradirla, picchiarla, lasciarla.

Tuttavia questo è ancora nulla rispetto a ciò che ha in serbo il destino. L’arrivo della morte, non a caso riservato all’inizio e non alla fine del film, amplifica però l’incanto e il mistero, prelude a una sorta di rinascita di lui, a «una gioia così grande, così speciale, che giace dentro il dolore e scompare senza un confine. Una gioia aldilà di ogni comprensione».

A esprimersi così, il direttore d’orchestra, prima delle prove. Stig, nonostante l’infausto accadimento, non ha voluto sottrarsi. In platea, un solo, importante ascoltatore: il figlio Lasse. La personificazione del futuro e delle potenzialità, come il mare a cui il protagonista di Eva consacrava il figlio appena nato. Sullo spartito, scorrono i sette fatidici anni della vita con Marta, i cui echi gioiosi e dolorosi sono amplificati dalla musica di Beethoven.

Bergman miniaturizza interrogativi e stupori di tutta la storia dell’umanità in un guscio di noce. Il corpo corruttibile, la sconfitta , la forza distruttiva di tempo e morte dischiudono la gioia e rivelano la verità del proprio posto nel mondo. Impossibile non rimanere commossi dal finale, che contemporaneamente interroga e annulla l’intelligenza, dando piena estensione al sentimento. Una forza travolgente di emozioni contrastate. Il cuore si spezza. E si riempie.

 

Leonardo Persia

 

 


Till glädje (Verso la gioia)

Regia, soggetto, sceneggiatura: Ingmar Bergman
Fotografia: Gunnar Fischer
Montaggio: Oscar Rosander
Scenografia: Nils Svenwall
Trucco: Carl M. Lundh
Produttore: Allan Ekelund
Interpreti: Stig Olin (Stig Eriksson), Maj-Britt Nilsson (Marta Olsson), Victor Sjöström (Sönderby), Birger Malmsten (Marcel), John Ekman (Mikael Bro), Margit Carlqvist (Nelly Bro), Erland Josephson (Bertil), Ingmar Bergman (uomo in attesa)
Casa di produzione: Svensk Filmindustri
Paese: Svezia
Anno: 1950
Durata: 98′

 

 

speciale INGMAR BERGMAN

 



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