Sånt händer inte här (Ciò non accadrebbe qui) > Ingmar Bergman

Sånt händer inte här (Ciò non accadrebbe qui)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1950)
recensione a cura di Leonardo Persia

È il Bergman più invisibile e rimosso, il meno amato e citato, mai riproposto nelle retrospettive o nelle televisioni (comprese quelle svedesi). Un «tormento dall’inizio alla fine» secondo l’autore, che, su antipatica commissione dalla Svensk Filindustri, gira controvoglia e persino con una sinusite, probabilmente psicosomatica, durata fino alla fine delle riprese. Arriva a sorpresa, dopo che il cineasta ha raggiunto uno stile ormai riconoscibile, film anomalo mal incastonato tra due eccellenti risultati, Verso la gioia e Un’estate d’amore, opere che sono già un preludio a Il settimo sigillo, visto che in entrambi, i personaggio principali (un uomo nel primo, una donna nel secondo), rivivono in flashback il loro incontro con la Morte (riguardante i rispettivi amati).

Ciò non accadrebbe qui, ricavato da un romanzo di Waldemar Brøgger, sceneggiato dal fido Herbert Grevenius, è invece un film di propaganda anticomunista, sulla scia dei titoli USA contemporanei, e, come quelli, si rivela un film dal taglio secco, noir, poco introspettivo, dalla scrittura fredda come la nuova, strana guerra “mentale” tra Oriente e Occidente. Per Bergman è soprattutto un film «di genere», una novità assoluta. Già maestro del primo e primissimo piano, della persistenza dialogica e dell’implacabilità dell’immagine fissa, qui allarga l’inquadratura (totali e riprese dall’alto, una particolare attenzione per lo spazio urbano) e spezza l’azione, rendendo i dialoghi scarni e alludenti. I ritratti umani si riducono a silhouettes psicologiche, l’interiorità si perde nella sospensione della trama thriller. Un film evanescente, assottigliato, una nube trattenuta di senso. Non arriva la pioggia, ma si intuiscono molte cose, per niente lontane dai contenuti dei film precedenti (e successivi), sebbene, per forza di cose, non espresse con la stessa, convincente lucidità.

Si tratta, ancora una volta, di un’opera sulla cacciata dal paradiso, constatazione di un peccato originale che continua a dannare, ed è la coppia, con le sue guerre, a ritrovarsi al centro del plot. Inizia dal cielo, proprio dalle nuvole, minacciose, mentre una voce fuoricampo ci avverte che quel che segue è fiction, ma ogni riferimento a fatti e personaggi reali non è puramente casuale. Titoli di testa, con musica di Eric Nordgren, mai così pomposa, dopo che lo spazio/cielo dell’inquadratura è stato solcato da un aereo in volo. I mezzi di locomozione, come le auto e le navi, rivestono un ruolo di grande importanza nell’economia narrativa del film, essendo spesso al centro di snodi e nodi fondamentali. Esprimono l’arrivo, la fuga, il desiderio di partire, temi bergmaniani ricorrenti, ma anche qualcosa di più profondo. Parlano di passeggeri spossessati di volontà, di spostamenti dei quali si ignorano traiettorie, di motivazioni e in cui è difficile capire chi guida, chi è guidato. Dove quasi sempre ci si sbaglia sul significato reale di ciò che accade al loro interno.

Quando, all’inizio, il personaggio scende dall’aereo e sale in macchina, i fari di una seconda auto, che inizia a seguire la prima, diventano due mostruosi occhi artificiali dietro il volto in primo piano dell’uomo. Anche gli occhi veri dell’autista, restituiti dallo specchio retrovisore, sono poco rassicuranti. Contrasto con la musica e i comunicati provenienti dall’auto-radio, ovattati, completamente avulsi dal contesto. È una scena che, esemplarmente, introduce i significati a seguire. Guardare ed essere guardati sono azioni indiscernibili e che si confondono tra di esse (di conseguenza, avremo sempre dubbi, e sorprese, su chi spia e su chi è spiato). I suoni (e quelli meccanici dei media, in primis) ottundono, confondono, negano, mentono. Così come gli oggetti, che contornano e rassicurano i personaggi, di fatto non riparano e, come nel caso dei mezzi di spostamento, certificano solo una tragica mancanza di approdo e stabilità.

Il cielo dell’inizio certifica una hybris terrena che vorrebbe sostituirsi a Dio, attraverso fallimentari pretese (politiche) di grandezza ed elevazione spirituale (il comunismo). Appartiene tutto al personaggio di Atka Natas (Ulf Palme), anagramma di Akta Satan, l’«autentico Satana» che, come già in Prigione, muove le fila del mondo (anche quando, come in questo caso, è rappresentato da un poveraccio che ne incarna il ruolo). Spegnerà la sua superbia con un suicidio, a un passo dall’acqua, vicino a un porto, tipico campo metaforico bergmaniano, che invece ridarà la vita alla consorte Vera (Signe Hasso), portatrice di un’altra verità (ribellione e fuga dal totalitarismo comunista dell’immaginario regno di Liquidatzia). Eppure, ancora una volta, non è tutto così schematico. Natas dovrebbe essere in missione segreta, raggiungere e riportare con sé la moglie fuggita, ormai sua nemica. Ma anche l’uomo è sotto continua osservazione, perché, si saprà presto, in realtà vorrebbe anch’egli fuggire dal paese comunista di provenienza, per riparare in America. Il suo accanimento nei confronti della moglie ha probabilmente motivazioni affettive (sia pure espresse nella totalità del loro aspetto negativo).

Neppure lei scherza. Quando la donna, che adesso sta con un agente dei servizi segreti (Alf Kjellin), gli inietta, a tradimento, un veleno alle spalle, ci sembra di essere in una delle ricorrenti scene oniriche bergmaniane, dove una moglie (o un marito) sogna di uccidere il proprio (o la propria) consorte. Confermano i suoni amplificati a seguire: uno squillo assordante di telefono, un fastidioso suono di campane. Come la comunicazione in genere, anche la funzione religiosa rivela nel film un che di artefatto, un abbaglio fuori luogo. Inoltre, nell’albergo dove avviene il tutto, fa il suo ingresso un medico ubriaco, sorta di coscienza incosciente. Un attimo prima, esitante, lei aveva scorto sul dorso di lui un segno, la cicatrice «fatta da un’altra donna con un morso». Vera diventa allora assai poco «vera», quando si aggira attorno al coniuge circospetta e minacciosa, risultando stavolta lei «cattiva». Guizzo di gelosia negli occhi e iniezione repentina. Ribaltamento bergmaniano, assolutamente crudele nei confronti dell’uomo e della donna (intesi come categorie), e tuttavia comprensivo nei confronti di entrambi. Il dramma politico pubblico si ridimensiona (magari si amplifica) in quello politico privato, diventando semplicemente (o forse in maniera più complicata) una guerra di sessi.

A questo punto il film sterza verso il ritratto, essenziale ma efficace, di un’intera società incapace totalmente di vedere e di capire, se non a livello superficiale, epidermico. Una sorta di dannazione contro cui è impossibile porre rimedio. Bella la sequenza, ripresa da molto in alto, in cui un agente cerca di trattenere la folla, desiderosa di assistere voyeuristicamente, senza com-prensione alcuna, alla morte di Natas. C’è una battuta, pronunciata dalla polizia segreta, sul popolo che, nemmeno quando sa e ha davanti, riesce a credere. Molte situazioni, inoltre, come un leit-motiv ricorrente, immutabile, saranno sistematicamente equivocate. Le torture, mascherate da dischi che coprono le grida e da finti attori che fanno le prove, appaiono feste dissolute; i torturati saranno presi per ubriachi (se donne, degenerate poco di buono); molti oggetti importanti (la cartella con i documenti segreti di Natas) non saranno visti perché troppo palesemente presenti.

Lo sguardo del cineasta si rivela (im)pietoso, constatazione sconsolata dello specchio offuscato sul quale si riflette (male) l’esistenza. Il tema attoriale, dello spettacolo che nasconde il vero, appare esplicito, come molti anni dopo ne L’uovo del serpente. Tutto diventa non spontaneo, perché inibito da regole auto-indotte, da una superbia meschina che non possono che sfociare in un regime totalitario (anche quello domestico). Gli esseri umani secernono disastro, è conseguente il loro Inferno in terra. Le vittime di regime in un attimo diventano carnefici. I «liberi», incapaci di capire il dramma di chi ha subìto, si limitano a infierire. Le differenze di segno (fascismo, comunismo) non cambiano la sostanza. Per inciso, questo è uno dei rari film d’epoca nei quali si accenna al patto scellerato tra nazisti e comunisti. Probabilmente, si fa capire che anche passare da un marito rosso a un fidanzato appartenente ai servizi segreti non è poi così differente.

L’amore salva, certo. La scena dove Vera e il nuovo amante, cupi e silenziosi, ritrovano a poco a poco una certa calma, accennando un sorriso, tra gli oggetti e le azioni della quotidianità, la cucina, i fiori, lo attesta pienamente. Come in altre opere bergmaniane, si tratta però di un sollievo momentaneo. I fiori, oggetto del dialogo, diventano ricettacoli di quiete, sono il simbolo della rinascita continua, indicano un re-inizio possibile. Tuttavia, come quando ci si ritrova dentro una serra (Piove sul nostro amore; L’adultera), emerge il tentativo, frustrato, impossibile, di perpetuare una bellezza destinata a finir presto. I fiori sono belli, ma appassiscono.

Leonardo Persia

 



Sånt händer inte här (Ciò non accadrebbe qui)

Regia: Ingmar Bergman
Soggetto, sceneggiatura: Herbert Grevenius dal romanzo I løpet av tolv timer di Waldemar Brøgger
Fotografia: Gunnar Fischer
Montaggio: Lennart Wallén
Musiche: Erik Nordgren
Scenografia: Nils Svenwall
Produttore: Helge Hagerman
Interpreti: Signe Hasso (Vera), Alf Kjellin (Almkvist), Ulf Palme (Atkä Natas), Gösta Cederlund (Dottore), Yngve Nordwall (Lindell), Hannu Kompus (Prete), Sylvia Täl (Vanja), Els Vårman (rifugiato), Edmar Kuus (Leino), Helena Kuus (donna al matrimonio), Rudolf Lipp (Skuggan), Eddy Andersson (ingegnere)
Casa di produzione: Svensk Filmindustri (SF)
Paese: Svezia
Anno: 1950
Durata: 84′

 

 

speciale INGMAR BERGMAN

 



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