Il cinema nietzschiano di Nicolas Winding Refn

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ART IS AN ACT OF VIOLENCE
Il cinema nietzschiano di Nicolas Winding Refn
a cura di Gabriele Baldaccini
in Rapporto Confidenziale 36

 

Il cinema di Nicolas Winding Refn è nietzschiano fino al midollo. Lo è in quanto ogni personaggio che il regista danese fa vivere sullo schermo è la perfetta connessione tra una morale cristianamente intesa e una forma di nichilismo sintomo di una certa decadenza della civiltà. È incessantemente l’uomo religioso come non-antitesi del nichilista, è quindi come fosse continuamente nel fulcro dei concetti espressi all’interno de L’Anticristo. «Per il senso comune, anche se storicamente non è sempre facile distinguere i buoni dai cattivi, la convinzione dalla malafede, l’altruismo dall’interesse personale, filosoficamente l’opposizione tra morale e nichilismo sembra indiscutibile: al punto che, perfino se paradossalmente tutti i virtuosi avessero mentito, da ciò non si potrebbe ancora dedurre che la vita morale è menzogna, ma soltanto che essa è difficile, e forse impossibile» [1].

Refn crea un universo di personaggi che si allontana moltissimo da un’idea di questo genere: egli evidenzia che il bene e il male, la verità e la menzogna, sono concetti con i quali è anche possibile fare confusione, e che dunque spesso non hanno confini visibili e ben definiti. «Per Nietzsche la morale, l’ideale, il dover-essere è menzogna, nichilismo, impostura: perfino se paradossalmente tutti i virtuosi fossero stati in buona fede, da ciò si dovrebbe dedurre soltanto che essi sono stati tutti incondizionatamente nichilisti» [2].

In definitiva la tipologia umana refniana ci appare come la personificazione dello scontro tra la debolezza e la forza, il potere e l’incapacità, lo splendore e la decadenza: traspare chiaramente attraverso i film di questo straordinario cineasta una presa di coscienza nel fatto che l’uomo è sempre ma è sempre anche il suo altro, con la sicurezza che egli non è mai il bene assoluto o il male assoluto, ma sempre e pienamente rappresentazione di un’eterna differenza. L’uomo è la contraddizione più grande del mondo naturale, egli è il bianco e il nero, il tutto e il nulla, il vuoto e il pieno.

In Pusher (1996) Frank è uno spacciatore di eroina che si indebita con un piccolo boss locale a causa di un affare andato male. Frank è spesso impassibile verso ogni situazione che è costretto a dover affrontare, ma il suo stato emotivo è quasi sempre estremamente caotico e confuso. Vive alla giornata, cerca di portare avanti un’esistenza che a tratti non sembra nemmeno percepire. Ma c’è una cosa in particolare che lo colloca di diritto in un limbo dove non si può distinguere il bene dal male: l’assenza in lui di qualsiasi forma di compassione. «La compassione si contrappone agli effetti tonici, quelli che accrescono l’energia del sentimento vitale: essa ha un effetto deprimente. Quando si compatisce si perde forza. Col compatire la perdita di energia, che già di per sé il dolore arreca alla vita, si accresce e si moltiplica ancora» [3]. Frank ne è consapevole, tanto che quell’unica volta che si troverà a compatire la sua ragazza Vic (anche se forse sarà più uno stratagemma inconscio per poter compatire se stesso), rischierà di entrare definitivamente in un baratro dal quale non poter mai più uscire.

Una vita non molto diversa da quella di Frank è costretto a viverla Tonny, personaggio principale di Pusher II (2004): una volta uscito di prigione il Nostro si ritrova a lavorare per suo padre, grosso ricettatore di auto, ad avere un figlio che nemmeno sa se gli appartiene e ad inguaiarsi nei loschi affari di un tale Kurt, spacciatore di eroina a tempo perso. La sua figura è quella di un perdente nato, ma soprattutto è anche quella di un “credente”. La sua è una “fede” incondizionata nella delinquenza, nella violenza (che praticamente non commetterà mai), nella menzogna. È un ruolo, il suo, che ci mette di fronte all’evidenza di quanto una “fede” incondizionata possa assumere i connotati del puro errore, a prescindere dal fatto che si collochi in una categoria di “fede benigna” o in una di “fede maligna”. «L’uomo della fede, il ‘credente’ d’ogni tipo è necessariamente un uomo tributario – uno che non sa porre se stesso come scopo, che non sa affatto porre scopi a partire da se stesso. Il ‘credente’ non si appartiene, egli può solo essere mezzo, egli deve essere adoperato, ha bisogno di qualcuno che lo usi» [4]. Tonny verrà “adoperato” continuamente da ogni persona che incontrerà sulla sua strada, fino a che non riuscirà a capire che la via per la sua liberazione potrà essere percorsa solo una volta spezzate le catene di quella “fede” che lo tiene prigioniero: lo farà e sarà finalmente libero.

Nell’ultimo episodio della trilogia, Pusher III (2005), è il concetto di “dovere” ad essere il nucleo delle vicende narrate. Milo è una figura che affronta problemi molto differenti l’uno dall’altro con un’attitudine assai simile: che sia organizzare il compleanno della figlia venticinquenne o spacciare un carico di ecstasy, fa poca differenza. Per non soccombere, egli deve strutturare la sua esistenza secondo una forma di “dovere” che si vada a plasmare sulla sua persona, non guardando assolutamente a un’idea di virtù o di morale comunemente intesa. «Nulla corrode più profondamente, più intimamente di ogni dovere ‘impersonale’, di ogni sacrificio di fronte al Moloch dell’astrazione […] Che cosa distrugge più in fretta che lavorare, pensare, sentire senza un’intima necessità, senza una scelta profondamente personale, senza gusto [5]. Per poter sopravvivere, Milo è costretto a convincersi che ogni cosa che fa sia quella giusta, l’unica che in quel preciso momento possa permettergli di continuare a vivere. Non crede nell’ “aldilà” bensì nella vita: «quando uno colloca il peso della vita non nella vita ma nell’‘al di là’ – nel nulla -, ha tolto alla vita in generale il suo peso» [6]. Ma una volta risolto ogni problema, il suo vuoto interiore gli si presenterà prepotentemente e in una forma annichilente.

La vita di Michael Peterson, il più famoso detenuto inglese di tutti i tempi, protagonista assoluto di Bronson (2008), ci stimola invece a farci delle domande e a darci immediatamente delle precise risposte: «Che cosa è buono? – Tutto ciò che nell’uomo accresce il senso di potenza, la volontà di Potenza, la potenza stessa. Che cosa è cattivo? – Tutto ciò che discende dalla debolezza. Che cosa è felicità? – La sensazione del fatto che la potenza cresce, che una resistenza viene vinta» [7]. La potenza cresce perché niente si dispone ad ostacolarla, o meglio, dal momento che è potenza è impossibile da ostacolare, è assolutamente irrefrenabile. Bronson mostra il lato più violento dell’essere umano, l’aspetto più incontrollabile e istintivo, quello che è impossibile da giudicare razionalmente. «L’uomo è, relativamente parlando, l’animale peggio riuscito, il più infermiccio, quello più pericolosamente sviato dai propri istinti» [8]. Bronson nega tutto ciò, ma allo stesso tempo ne riafferma ogni evidenza, essendo egli un simbolo assoluto di quello che rappresenta. È un’allegoria di violenza, potenza e puro istinto, perciò sottolinea il fatto che l’uomo è generalmente altro-da-lui: sì violento ma non puramente, sì istintivo ma non completamente, sì potente ma non fisicamente. Ma Bronson è anche una figura prepotentemente cristiana: «Cristiano è l’odio per lo spirito […] la libertà, il libertinage dello spirito; cristiano è l’odio per i sensi, per le gioie dei sensi, per la gioia in generale…» [9].

Al contrario di Bronson, One Eye, in Valhalla Rising (2009), è un eroe. È però inconsapevolmente un eroe, è un eroe per sé e per nessun altro. Si libera da un clan norvegese, distrugge il nemico (un gruppo di guerrieri cristiani che accompagna alla ricerca della Terra Santa), salva (più o meno) un fanciullo e si sacrifica lasciandosi uccidere da una tribù di indigeni americani. «Se c’è qualcosa di poco evangelico, questo è il concetto di eroe. Esattamente il contrario di ogni lotta, d’ogni sentirsi-in-battaglia è qui divenuto istinto: qui diventa morale l’incapacità di opporre resistenza (‘non opporti al male’ è la parola più profonda dei Vangeli, in un certo senso la loro chiave), la beatitudine nella pace, nella dolcezza, nel non poter-essere-ostili» [10]. One Eye è allo stesso tempo eroe e anti-eroe di se stesso, la sua esistenza è l’attuazione di un eroismo che vuole affermarsi in una dimensione pura e quasi astratta, è, nello stesso istante, un “sentirsi-in-battaglia” e un “non poter-essere-ostili”. L’eroismo di One Eye insomma si vanifica nel momento in cui si attua.

La figura però che più di ogni altra racchiude in sé quasi tutte le idee fino a questo punto espresse, è sicuramente quella di Driver, protagonista di Drive (2011). Egli, in modo particolare, è l’amore e l’odio, è la debolezza e la forza: è la definitiva dimostrazione che l’essere umano è il luogo dove si oppongono molte energie, nessuna delle quali riesce a imporsi su ognuna delle altre. C’è una scena in particolare che chiarifica tutto ciò, ed è quella fatidica dell’ascensore: un gesto di amore assoluto e uno di odio puro, in un tempo e uno spazio molto ravvicinati, fanno comprendere quanto l’equilibrio di queste due emozioni sia qualcosa che, pur decadendo spesso, sta alla base della natura umana. «L’amore è quella condizione in cui il più delle volte l’essere umano vede le cose come non sono» [11]. L’amore è purezza, è benevolenza, ma se travalica il confine del suo recinto, se cioè annebbia la vista di colui che ne prova le sensazioni e le emozioni, esso diviene il male e non più il bene. Sembra perciò quasi svilupparsi, nella figura di Driver, una consapevolezza attraverso la quale egli riesce a comprendere che, per poter controllare l’assolutezza dell’amore, sia necessario, una tantum, “innestarsi” delle piccole dosi di odio. In realtà il discorso è più semplice di quanto si creda: Driver è appartenente a quella casta che Nietzsche chiamava: «la casta dei pochissimi». È una casta che «essendo perfetta, ha anche i privilegi dei pochissimi: tra questi vi è quello di impersonare sulla terra la felicità, la bellezza, la bontà. Solo agli uomini più spirituali è permessa la bellezza, il bello: solo in essi la bontà non è debolezza […] Gli uomini più spirituali, essendo i più forti, trovano la propria felicità là dove altri troverebbero la propria rovina: nel labirinto, nella durezza verso se stessi e verso gli altri» [12]. Driver sacrificherà se stesso non per ciò che ama ma per l’Amore e lo farà con un atto che ergerà il valore morale negandolo allo stesso tempo. «Real human being and a real hero»? Forse. Ma prima di quello: oltreuomo che attua il nichilismo e lo supera definitivamente, morte di ogni Dio e avvento di sé; un nuovo Dio. E inoltre: atto di violenza e atto di arte, e perciò riassunto (fino a qui) definitivo di tutto il cinema di Refn. Ed è Refn stesso a dichiararcelo: «Art is an act of violence». Non scordiamocelo mai. •

Gabriele Baldaccini

 

NOTE

1 | Mario Perniola, Introduzione a “L’Anticristo”, in Friedrich W. Nietzsche, L’Anticristo – Crepuscolo degli idoli – Ecce homo, Newton Compton, Roma 1989, p.21

2 | Ivi.

3 | Friedrich W. Nietzsche, L’Anticristo – Crepuscolo degli idoli – Ecce homo, Newton Compton, Roma 1989, p.31

4 | Ibidem, p.72

5 | Ibidem, p.34

6 | Ibidem, p.60

7 | Ibidem, p.29

8 | Ibidem, p.36

9 | Ibidem, p.42

10 | Ibidem, p.49

11 | Ibidem, p.43

12 | Ibidem, pp.76-77

 

Rapporto Confidenziale 36



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