Sul ring dei sogni propri e altrui
recensione a cura di Leonardo Persia
Se si vuol sapere dell’altro, non bisogna essere come l’altro. Piuttosto entrargli negli occhi, sintonizzare il proprio cuore col suo, tentare persino di fare le medesime cose, appropriarsi dell’altrui linguaggio, non limitato soltanto a fonemi e slang più o meno differenti. Muoversi alla stessa maniera, rapportandolo al mio vissuto, mai così lontano quanto così vicino. Entrare e uscire, distanziarsi ma accanto. Essere sé anche e soprattutto attraverso il non me. Mica facile, eppure semplice.
Francesco Calandra con La palestra, titolo eloquentissimo, si sfida da solo per tramite dell’altro, realizzando un film con (più che su) i rom (parole sue), senza saperne neppure tanto, giusto quel po’ che invece è sempre molto. Entusiasmo, curiosità, ingenuità, necessità. L’americano Melvin Van Peebles de La permission (1967) si faceva nouvelle vague per documentare in diretta la sua storia d’amore con una bianca francese ma attraverso l’interposta fiction e continuando a essere african-american pur con tutte quelle intromissioni europee. Unica forma autentica di mediazione, jam session, fusione e fusion, love story e tutto quello in cui io è un altro.
Così Calandra va dai rom di Pescara sud, quartieri periferici di San Donato e Villa del Fuoco, malfamati e aborriti come un ghetto, e tuttavia luoghi di nascita e infanzia dello stesso regista. Messa a fuoco degli sconosciuti vicini di casa. Abitanti di una landa di anonimi palazzi popolari però per niente pop. Il posto cementato degli zingari e dei neri, extracomunitari ed extraterrestri, edificato nei ’50 per contadini urbanizzati da mandare in fabbrica (altri alieni) e lasciato poi in un regime di apartheid culturale e mentale. In questa impresa diventa nomade anche l’autore, che si avventura in più ambiti per constatare inadeguatezze e difficoltà dell’incontro, subendo contemporaneamente dileggi, ostacoli e quant’altro possa rendere ancor più arduo il frastagliato cammino di un filmmaker senza nome, sovvenzioni decenti, fuori dagli sche(r)mi e pure di provincia. Quindi un po’ zingaro anche lui.
Prima realizza un laboratorio di preparazione al film, avvicinando gli aspiranti attori, poi decide, in maniera neanche troppo originale, di realizzare una specie di Rom Side Story, Romeo e Giulietta di quartiere, lui gaggio, lei no, lanciando l’annuncio: «Per la realizzazione di un film cercasi ragazza rom». Nessuna risposta, progetto abortito. Il film (quello che vediamo) sarà allora basato sulla difficoltà di girare con un’attrice rom. Perché, spiega uno degli attori coinvolti nel laboratorio e poi nel film, Enrico Di Rocco, sempre insieme al cugino Moreno, la nostra cultura è chiusa e le nostre donne non si presteranno mai. Francesco allora si fa un giro in macchina col giovane, pre-testo per chiacchiere alla Kiarostami, alternate a eccentrici ‘controcampi’ dei palazzoni ripresi in camera-car. E a poco a poco inizia a chiedere e a sapere di quella cultura di cui tutto ignora, specie per quanto concerne i riti di corteggiamento, fidanzamento e matrimonio. Ma sul serio non sa o fa finta?
Tutto sembra improvvisato, spontaneo, privo di costruzione e artefatti, un docu fatto per scender giù come un sorso d’acqua minerale, magari corretto con fettina di limone. Semplice eppur elegante. Infatti dietro ci sono un soggetto a quattro voci, una costruzione, la sceneggiatura elaborata (di Calandra e della compagna Maria Grazia Liguori, co-firmataria dell’opera) che hanno l’umiltà di auto-annullarsi. E una (tele)caméra stylo a più formati in grado di scrivere (girare) con inchiostro simpatico. Lasciando sempre il dubbio dove sia il confine tra vero e falso, meditato oppure auto-generato. Viste le porte costantemente spalancate del set. E considerati soprattutto i limiti oggettivi trasformati in virtù. È un film piccolo, indipendentissimo, frammentato per via del budget miserrimo, le difficoltà, le interruzioni, gli attori rom mai puntuali e che potevano anche mollar tutto se gli girava storto. Calandra cerca l’alchimia proprio dove sembrerebbe mai esserci. Sa che Stéphane Grappelli perdeva sovente le staffe con i comportamenti mai professionistici, troppo zingari, di Django Reinhardt, creativo anarchico. E forse proprio per questo, ciò che usciva fuori da quel duo dissonante risultava sempre magicamente amalgamato.
Swingante allora pure lo stile a dir poco composito del lavoro. Dotato della stessa ironia conosciuta in Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen (2009) della giovanissima Laura Hallovic. Un humour rom, sterzante, impassibile, profondo, fintamente auto-referenziale (proprio come i rom sono fintamente chiusi in sé), mediante il quale Francesco si scompone pezzo pezzo, frazionando pure il suo film, a cui fa seguire ogni possibile direzione di linguaggio e di ricerca. E più si spezzetta mentendo, più La palestra diventa compatto, omogeneo, autentico. Ci si trova davvero in una specie di film iraniano pre-Ahmadinejād magari in trasferta estera. I confini tra vero e falso si dissolvono al pari delle frontiere gagé/rom abbattute dall’autore.
Quando entra in scena una donna sinta (Samira Bacci, volto davvero interessante), unica a rispondere all’appello, sia pure in ritardo e anche con qualche anno in più, le cose si complicano, perché Enrico contesta alla donna di essere truccata, non rom e con i pantaloni, di vivere in roulotte. Un’altra menzogna: la donna aveva rifiutato il cugino e quindi per Enrico recitare con lei è come sputare sull’onore di famiglia. Dalla fiction vien fuori il docu e viceversa, speciale cortocircuito teorico. Anche i tre protagonisti fanno ingresso in sé stessi uscendone, dicono il vero fingendo. È il tramite che, con auto-ironia sorprendente per chi non conosce rom e sinti, rende possibile vivisezionare le loro etnie, esposte sia nei difetti che nelle virtù.
Tutto il film diventa un gioco delle parti dove ognuno diventa reale proprio in quanto non lo è completamente. A cominciare dallo stesso regista che appare as himself, perenne sognatore, esposto nelle comiche gaffes coi propri attori, le pratiche sportive che appartengono a questi ultimi, i familiari che non approvano il film e tantomeno la sua attività di cineasta. Persino un autentico politico della Regione Abruzzo arriva a rifarsi il verso: promettendo, smentendo, ingannando. Lo ingaggia un parente di Francesco per interrompere i finanziamenti al progetto, visto con sospetto un po’ invidioso, e infrangergli il sogno di fare cinema. Sogno interrotto per sempre mentre in una proiezione all’aperto mostrano, innervato nel corpo del film, il videoclip/spot di un rapper locale (l’autentico C.U.B.A. Cabbal), atto a far sì che un ulteriore sogno non si perda. Quello delle attività della palestra di pugilato gestita dal padre di Moreno (Guido Di Rocco), ex boxeur ora allenatore che pratica lo sport come disciplina sociale. Il luogo magico da aspettarsi proprio dove non te l’aspetti. Ti raccoglie dalla strada, educandoti alla disciplina, al controllo e all’autostima. Ma il comune minaccia di riprendersi i locali. È dove Francesco va ad allenarsi per meglio conoscere i soggetti della sua indagine, immaginando altresì di esser preso a pugni dai suoi parenti serpenti.
Niente finanziamenti, quindi, e fine brusca dell’avventura cinematografica. Eppure l’altro film parallelo, quello che abbiamo visto fino ad adesso, giunge a destinazione alla grande ricominciando da tre, con gli intensi mini-ritratti dei tre protagonisti. Enrico in un cantiere, Samira tornata nomade e Moreno che dall’alto di una collina fa vedere a Francesco il luogo in cui è nato, lì dov’era una roulotte poi bruciata. Una manciata di minuti pudichi, nostalgici, ri-compos(i)ti. Bellissimi. Il visivo concretizzarsi di quella battuta che è contemporaneamente la chiave di lettura del film. «Cuà ca arsìtt, a si chiù fiddér!»: quel che ti rimane è ciò che non ti aspetti! •
Leonardo Persia
La palestra
un film di Maria Grazia Liguori e Francesco Calandra
Regia: Francesco Calandra • soggetto, sceneggiatura: Maria Grazia Liguori, Francesco Calandra • montaggio: Valerio Spezzaferro, Giuliano Panaccio, Francesco Calandra • fotografia: Alessio Tessitore • operatore: Lorenzo Gobeo • operatore steady-cam: Giuseppe Di Giulio • suono in presa diretta: Pierpaolo Di Giulio • montaggio suono: Giuseppe D’Amato • scene e costumi: Silvia Stellabotte, Giorgia Grossi (assistente) • musiche: M.A.T. – Marcello Allulli Trio, Andrea Moscianese, CUBA Kabbal, Arcangelo Spinelli, Germano Cesaroni • supervisione alle musiche: Sandro Naglia, Valentina Coladonato • voce over (spot): Carlo Orsini • segreteria di produzione: Isabella Micati • assistenza tecnico-informatica: Francesco Frittelli • post produzione video: The Shift – GarageLab • correzione colore: Mauro Forte • foto di scena: Laura Angeloni • con: Enrico Di Rocco, Moreno Di Rocco, Samira Bacci, Guido Di Rocco, Francesco Calandra, Giacomo Vallozza, Domenico Turchi, Federica Nobilio, Tommaso Di Giorgio, Antonella De Angelis, Angelo Falcone, Irene Cocchini, Antonio Crocetta, Agnese Lavore, Gianni Teodoro • progetto grafico: Pamela Liguori – H2O LAB architecture office • produzione esecutiva: GarageLab • formati di ripresa: HD – P2 Panasonic, miniDV, Super 16mm (Pellicole Fuji, Sviluppo e Telecinema 16mm: Augustus Color – Cinecittà) • formato di proiezione: DVCAM, DVD • paese: Italia • anno: 2012 • durata: 70′
Le foto di scena (+cover articolo) sono di Laura Angeloni | ANNILUCE Studio Fotografico