Il secolo vuole violenza, ma abbiamo soltanto esplosioni mancate
Henry Miller, Tropico del Cancro
Sul tappeto erboso della prateria anatolica la rugiada si scioglie sotto la luce fredda del mattino. Volute di vapore e nebbia si alzano verso il cielo grigio, sospese tra inorganicità e animismo. Poi il misterioso paesaggio della Cappadocia, con i suoi speroni rocciosi scavati da mani umane anonime e trasformati in rifugi, invade lo schermo. Interno giorno, ma sembra notte, perché nell’omogeneità del quotidiano certe distinzioni sfumano l’una nell’altra, un uomo sta davanti la finestra mentre un fantasmatico movimento di macchina ci porta, letteralmente, dentro la sua testa.
A questo punto lascio iniziare il mio film mentale. Mi sento formalmente legittimata a farlo.
È inverno, la neve cade sulle cose come Triazolam dentro un bicchiere mezzo vuoto. Il piccolo sultano del paese è un omuncolo, meschino e misero, ma sa adornarsi di velluti scarlatti e parole scintillanti. La facciata da preoccupato preservatore del paesaggio di cui si sente custode, la magnanimità con cui garantisce ai suoi affittuari di pagare anche in ritardo – purché paghino e si genuflettano – viene lentamente messa in crisi da un vetro rotto da un bambino con un sasso; sarà costretto poi dai parenti a fare avanti e indietro lungo umidi sentieri fino a baciare la mano fintamente imbarazzata del signorotto.
Assistiamo alla quotidiana parata del re, mentre viene spogliato, fendente dopo fendente, dalle parole delle due donne che gli fanno da ancelle nelle sue stanze chiuse e adornate di superbia: la sorella presa a schiaffi dalla vita e una moglie quasi schiacciata dalla sua stessa bella gioventù che gira a vuoto.
La stanza dei bottoni del regno è l’Hotel: al suo interno si svolgono goffe interazioni tra il proprietario e alcuni turisti. Spicca la figura di un giovane motociclista, che smonta lentamente durante laconiche conversazioni le affermazioni implicite attraverso cui il piccolo protagonista cerca di proiettare su di sé un po’ dell’avventura del giramondo. Ma dove sono i cavalli fotografati sul sito dell’hotel? Facevano solo scena?
La macchina di Ceylan scatena la sua potenza plastica all’inseguimento dei famosi cavalli selvaggi anatolici, veloci forti possenti. Un cavallo viene violentemente trascinato in cattività; fa da contrappunto la trattativa sul prezzo dell’animale, che viene poi portato in una grotta che funge da stalla, la sua fiera natura impastoiata al compiacimento del turista trasgressivo. Ma poco dopo il turista parte, con poco preavviso: d’altronde un’avventura con un piano, che razza di avventura è? Al piccolo re non rimane che guardarlo mentre se ne va, incidendo il sentiero infangato con le ruote. Durante la notte, tra le volute di bruma, libera il cavallo, restituendolo ai torrenti che rigano le pianure come specchi di un cielo furioso.
Il colpo di grazia di questo sedicente Otello (così ha chiamato il suo hotel) avviene però durante un incontro a casa di un vecchio amico, cui partecipa a sorpresa anche il professore sospettato di essere innamorato di sua moglie. In un intimista carnevale annaffiato di alcol, il piccolo professore di provincia, a suon di citazioni shakesperiane, smaschera crudelmente preciso come un chirurgo il finto umanesimo codificato del possidente, mettendo in luce come la sua falsa ironia non sia in grado di redimere l’autocompiacimento che, avulso dalla sua solo illusoria generosità, non può nemmeno sguazzare nella tragedia. Un avido, senza passione, ecco cosa sei, cosa gli lascia intendere. Il sultano tenta la difesa, ma è troppo ubriaco e si vomita addosso (quelli che dormivano in sala si svegliano per emettere onomatopee di disgusto).
Il giorno dopo i tre vanno a caccia, uccidono una lepre. Niente ha senso, il piccolo mondo si chiude su sé stesso mentre un’auto riporta a casa il re, al punto di partenza, dove lo avevamo trovato, pronto a scrivere il suo libro: l’occasione per redimere tutti i rimpianti di una vita. Una panoramica del paese abbarbicato sulla collina, coperto di neve, ci immerge nel paesaggio invernale che Brueghel dedicò alla caduta di Icaro, tanto più drammatica perché completamente dimentica nel generale affaccendarsi per la sopravvivenza di ogni piccola figurina che punteggia la tela.
È solo per amor di verità che devo ammettere che questa non è la storia di Kiş uykusu (letteralmente: letargo). Il film di Ceylan è un susseguirsi di verbosissimi dialoghi al limite del sostenibile tra una manciata di personaggi in cerca di autore che cercano di sopperire alla mancanza di idee portanti toccando temi fondamentali quali la dialettica tra provincialismo e progressismo, l’opposizione tra moralità e decoro, le virtù della carità e della compassione, l’origine del male, la necessità o meno di resistere a esso o di sconfiggerlo subendolo paradossalmente. Il che sarebbe estremamente interessante e anche coraggioso, se solo questi personaggi non sprofondassero nelle banalità più inqualificabili, utilizzando per altro un vocabolario altamente melodrammatico. Sembra di assistere a un teatro di marionette in cui i personaggi non fanno che sputarsi addosso frasi da bar. Sarebbe anche divertente se questi avessero un qualche tipo di multidimensionalità, ma così non è. Le ombre che vediamo agitarsi sullo schermo non hanno storia, non hanno ferite, non hanno gonfiori né lividi. Non bastano gli sguardi accigliati degli ottimi attori per sopperire a questa assenza di non-detto, a questa cancellazione della memoria e della passione: è tutto qui di fronte a noi, è tutto presente, la proliferazione del verbale è tutto ciò che è stato dato in dote a questi personaggi che si agitano qui e ora. Di fatto, paradossalmente, le scene madri che rivelano l’autentico genio di Ceylan emergono in modo prorompente proprio quando abbandona le eccedenze del linguaggio per affidarsi alla sintesi potente del suo occhio e ci mostra, così, una natura tanto potente quanto ferita, imbrigliata, cacciata. Una natura che commuove e fa piangere sulla triste sorte che tocca alla lepre. La verità di questo film, infatti, è tutta contenuta lì: in quella lepre che non cade follemente morta e si rialza e scappa via e redime così le colpe del cacciatore – “solo l’eccentrico sarebbe in grado di resistere e porre un alt all’assurdo” [Adorno, Minima Moralia, aforisma 128] –, ma che sanguina e macchia la neve con l’umore che sgorga dalla ferita, frutto di una violenza precisamente mirata e portata a segno efficacemente. L’umanità è umiliata in quella vittoria, e questo è svelato da Ceylan quando esibisce silenziosamente le debolezze mentali e corporee (i piedi che fanno male, la nausea che sconvolge una conversazione), dando finalmente sfogo a una mdp irretita nella resa dei dialoghi e nel tentativo di salvarne l’originalità con l’inserimento di riprese di specchi e riflessi vari (la tragedia del doppio e dell’illusione introdotta dalle citazioni a Shakespeare e Chekov, buttata lì, non ulteriormente elaborata) e zoomate che falliscono dal salvare dalla sostanziale mancanza di idee anche a livello formale.
Su 190 minuti circa di film, solo una ventina, a essere generosi, presenta quella qualità che aveva contraddistinto la filmografia del regista: la capacità di gestire la camera attraverso una visione particolare e un modo di narrare che, proprio nella rarefazione, riusciva a condensare tutto ciò che di tragico, misero, ma anche bello e utopistico è racchiuso in quel mostro che chiamiamo essere umano. Ceylan, per il pubblico o per la giuria, prova a cambiare strada, a superare il suo capolavoro Bir zamanlar Anadolu’da (C’era una volta in Anatolia, 2011), ma non lo fa con il dovuto coraggio. Scarta a destra, si spoglia di tutti i suoi punti di forza in un malcelato runforrecovery. Si limita a fingere di superare sé stesso: abbandona i dialoghi asciutti e serrati, si sgancia dall’abilità di rendere il paesaggio e il movimento dell’occhio sul paesaggio un elemento narrativo, abbandona le colonne sonore naturalistiche per utilizzare Schubert nei momenti di particolare tensione, o meglio melodramma. Fa tutto questo, però, seguendo l’elenco di tutto ciò che ha reso la “nuova ondata” turca una delle promesse di redenzione di questa settima arte che sembra ormai annegare sotto le pressioni del mercato: storie dai margini, attenzione al respiro sociale e politico del testo filmico, riflessione e critica sul machismo, assenza di un mondo manicheista, abilità di sintentizzare più fonti senza perdere di vista l’originalità delle trame e la cura maniacale per la fotografia. Ceylan non si fa mancare nemmeno le, ormai tipiche, allusioni a una Istanbul lontana, promessa di una modernità mai totalmente compiuta, e le scene nei luoghi del “tra”: stazioni ferroviarie e binari che rimandano a un’umanità atomizzata nel suo individualismo, incurante e superficialmente indignata per l’innocenza perduta. La ricetta per il capolavoro è stata seguita con precisione scientifica, e il bottino portato a casa. Ciò che rimane è un film che voleva essere allegoria di una borghesia sempre più vuota e sull’orlo del collasso, a cui non rimane altro che un intellettualismo pedante, che sguazza in un humor nero che non fa ridere e finisce per essere, ironicamente – ripudiando la mimesi naturalistica dei lavori precedenti, secondo una logica comunque mimetica ma priva di incisività – , un’elegia feticistizzante all’intellettualismo affiliato, e quindi complice, dell’élite. •
Giulia Belloni
Kış Uykusu
titolo internazionale: Winter Sleep
titolo italiano: Il regno d’inverno – Winter Sleep
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Sceneggiatura: Nuri Bilge Ceylan, Ebru Ceylan
Fotografia: Gökhan Tiryaki
Montaggio: Nuri Bilge Ceylan, Bora Göksingöl
Produttore: Zeynep Ozbatur Atakan
Produttore esecutivo: Sezgi Ustun
Interpreti: Haluk Bilginer (Aydin), Melisa Sözen (Nihal), Demet Akbag (Necla), Ayberk Pekcan (Hidayet), Tamer Levent (Suavi), Serhat Mustafa Kiliç (Hamdi), Nejat Isler (Ismail), Nadir Saribacak (Levent)
Produzione: Zeynofilm
Distribuzione (Italia): Parthènos, Lucky Red
Lingue: turco, inglese
Rapporto: 2.35:1
Paese: Turchia, Germania, Francia
Anno: 2014
Durata: 196′