articolo pubblicato su Rapporto Confidenziale numero23 (marzo 2010), pp.42-47
Conversazione con Gianclaudio Cappai, regista di "So che c’è un uomo".
di Alessio Galbiati
Il tutto si compone di casualità, una successione interminabile di eventi concatenati l’un con l’altro da, se piace crederlo, il destino, più prosaicamente, dal caso. Ricordate la folle sequenza d’apertura di Magnolia, il bellissimo film altmaniano diretto da P.T. Anderson, quella in cui il regista e sceneggiatore ci illustra le combinazioni assurde che può assumere la realtà di ognuno di noi? Ecco. So che c’è un uomo è piombato nella mia vita di colpo, senza un motivo preciso; certo (co)dirigere un mensile dedicato al cinema aiuta senz’altro a cogliere questo tipo di destino manifestatosi sottoforma di pacco in busta gialla da aprire per scoprirci all’interno un dvd. Messo nel lettore il colpo di fulmine è stato istantaneo, folgorante.
Gianclaudio Cappai al suo primo mediometraggio coglie nel segno, sotto molti punti di vista. So che c’è un uomo è un film è assolutamente convincente e per nulla banale, a partire dal soggetto. È la storia di una famiglia entro la quale covano molti malesseri. C’è un figlio “disturbato”, ci sono rapporti incestuosi di amore-odio fra i suoi componenti, c’è un’ottima recitazione volta a mettere in scena il non detto, l’extra diegesi che come un fantasma aleggia e si aggira per la mezz’ora di immagini in movimento di cui si compone. Cappai ha scritto e diretto un’opera che ha nel sapiente mix delle parti, fotografia e suono, recitazione e sceneggiatura, detto e non detto, visibile ed invisibile, la sua forza principale. Girato in pellicola 35mm fu presentato in anteprima all’ultima edizione del festival di Venezia (Venezia 66, anno 2009), in concorso nella sezione Corto Cortissimo, e da allora ha girato con successo la penisola, progettando visioni extra-italiche, raccogliendo parecchi attestati di stima e già un discreto numero di riconoscimenti (Visioni Italiane e Sulmona Cinema Film Festival).
Alessio Galbiati: Nelle note di regia, che a mio avviso sono un’ottima recensione della tua stessa opera (vedi pagina 47, o alla fine di questo articolo html), parli di un’origine autobiografica della materia trattata. Qual è la materia trattata? Cioè di cosa parla il film ed in che modo questo dialoga con il tuo passato e con la tua personale Storia di vita?
Gianclaudio Cappai: Ci tengo subito a precisare che il mio film non è autobiografico, o almeno non lo è nell’accezione comune che si da al termine. È un’opera molto personale, questo sì, in cui la spinta propulsiva di fondo era un residuo emotivo che mi supplicava una catarsi. Mi sono limitato a seguire questa spinta, convinto che l’originalità di ogni prodotto artistico non possa prescindere da noi stessi e dalle nostre esperienze passate, intese anche come bagaglio culturale che ci portiamo dietro. Può sembrare un’idea poetica, ma in realtà è un’urgenza fisica. Il modo in cui qualcosa si trasforma in un racconto è molto incerto e delicato, spesso aneddotico. Non è semplice dire qualcosa sulla tua vita e metterlo in relazione con un film, con una messa in scena: il rischio principale nel quale si incorre è di autocensurarsi. Fortunatamente ho avuto la lucidità e il coraggio di essere impietoso prima verso me stesso e poi con il tema che volevo affrontare. Mi sentivo pronto perché avevo individuato lo stile giusto per concretizzare l’atmosfera di sgradevolezza, di malessere e di smarrimento, di indecifrabilità e di serpeggiante follia che avvolge questa storia. Etica ed estetica sono davvero le facce della stessa medaglia, ancor più in un film come questo, in cui è la forza dello stile che esalta le incongruenze familiari che sono all’origine delle mie storie. Si può impedire che un padre sacrifichi il figlio malato per un vacuo ritorno all’ordine? Si può carpire l‘intimo segreto che si cela dietro i legami apparentemente più consueti? I personaggi di So che c’è un uomo tentano simili operazioni.
Alessio Galbiati: Di So che c’è un uomo oltre che la regia hai curato pure la scrittura del soggetto e soprattutto la sceneggiatura. Quante pagine hai scritto ed in che modo questa ti è stata utile nelle successive fasi realizzative?
Gianclaudio Cappai: Ora non ricordo bene quale fosse l’ultima stesura con la quale abbiamo iniziato le riprese, mi pare fosse la settima; lo script, di circa 40 cartelle, era dettagliatissimo riguardo alle atmosfere, agli squarci visivi, nonché pregno di annotazioni psicologiche sui personaggi, come se già sulla carta volessi lasciare agli attori degli input ben precisi sui quali poi loro avrebbero considerato quanto margine di libertà prendersi. Sicuramente il rigore maggiore della sceneggiatura stava nella sua struttura drammaturgica così inusuale, in cui la storia procede per minime focalizzazioni progressive, per saturazione piuttosto che secondo logiche di causa-effetto. Mi affascina questo tipo di costruzione narrativa, dove ogni tassello ha un potenziale valore poetico in sé ma, come in un alveare, è tangibile a tutti gli altri contribuendo in maniera determinante al quadro d’ambiente. Ammetto tuttavia che un approccio simile, così dannatamente pensato a monte, lascia davvero poco spazio all’improvvisazione. Io non conosco l’improvvisazione, non so cosa significa. Non ho mai creduto al fortuito che nasce dall’ebbrezza delle riprese, tutte queste cretinate in stile dogma per far gongolare i videomaker in erba. Non scherziamo, per favore. Per me il cinema è come un’operazione chirurgica a cuore aperto: se ti distrai un attimo, è la fine…
Alessio Galbiati: Nel film tutto accade fuori scena, fuori campo. Il suono dell’ambiente (ottimo il lavoro di Stefano Campus, Maximilien Gobiet, Marzia Cordò e Stefano Grosso) carica le sequenze di una tensione incombente, come se un qualche dramma stia per compiersi da un momento all’altro. Mi interessa sapere come hai lavorato per ottenere questa efficace messa in scena composta da elementi extradiegetici e come l’hai armonizzata, immagino soprattutto in fase di montaggio, con la fisicità e le performance degli attori?
Gianclaudio Cappai: Ho avuto al mio fianco collaboratori straordinari, abbiamo lavorato molto bene insieme. Spesso si è discusso animatamente, ma alla fine, quasi sempre, i test e i provini di sound design erano pazzeschi. È stato un lavoro maniacale, sia in fase di registrazione diretta che in quella di montaggio suono e mixage. Come ti accennavo prima, la sceneggiatura richiamava continuamente il senso di minaccia evocato dal fuori campo, pretendendo che fosse in seguito una stratificata orchestrazione sonora a intrecciare gli ambienti e la simultaneità delle situazioni. Non credo in tutto il film ci sia una sola scena che non richiami un fuori campo. Nemmeno una. Aggiungi poi che ho avuto la fortuna che il film fosse ambientato in una zona in cui la natura mi consentiva di creare uno sfondo molto più potente di qualsiasi musica: cicale, mosche, latrati… era già una perfetta combinazione di frequenze alte e basse, bisognava solamente armonizzarle. I personaggi vivono in uno stato un po’ selvaggio, la natura li avvolge e funziona come loro: è aggressiva, li costringe ad una claustrofobia spaziale insopportabile, li rende goffi e stanchi nei movimenti. Grazie alla banda sonora puoi esasperare tutto questo, puoi in pratica rendere sensoriale e perturbante l’intero assunto.
Alessio Galbiati: La fotografia, opera di Emiliano Fiore, è senz’altro uno dei punti di forza del film. So che c’è un uomo è girato in pellicola 35mm, una scelta coraggiosa verrebbe da dire visti i tempi che corrono. Ci puoi raccontare il perché di questa decisione? Come mai hai utilizzato la pellicola?
Gianclaudio Cappai: Venivo dall’esperienza del mio precedente cortometraggio (Purché lo senta sepolto), girato in pellicola super 16mm, col quale avevo testato e ottenuto risultati visivi, parlo di pasta e grana fotografica, assolutamente sorprendenti e micidiali. Mi sembrava quindi logico e stimolante continuare su quel tipo di ricerca visiva, passando stavolta ad un formato 35 mm come unica garanzia per un impatto di immagine iperrealistico. Considera infatti che non bisognava tradire la bellissima luce naturale di quei giorni estivi, la profondità dei dettagli, gli incarnati, la polvere; l’utilizzo della pellicola ci ha dato un’aderenza pressoché totale a questa impronta estetica. Una scelta di gusto, e per me va bene cosi. Una volta definita col direttore della fotografia l’atmosfera che volevamo, essenzialmente colori smorti e immagini “malate” e nient’affatto attraenti, la cifra stilistica più delicata riguardava il lavoro da fare con la macchina a mano. Anche qui nessuna frenesia, optando invece per una macchina da presa essenziale, fluida, quasi sempre furtiva rispetto alla storia di una famiglia spiata nelle sue torbidezze e ambiguità.
Alessio Galbiati: Un altro aspetto che ho trovato assai convincente, che in estrema sintesi mi è molto piaciuto, è la location scelta. Ci puoi raccontare dove l’hai girato e come hai scelto proprio quel luogo, quel casolare isolato, come palcoscenico entro il quale far deflagrare le tensioni del nucleo famigliare al centro della vicenda narrata?
Gianclaudio Cappai: Se si eccettua la scena del combattimento dei galli, girata a Ponte Galeria, qui a Roma, tutte le restanti riprese sono state realizzate in tre settimane nella tuscia viterbese, vicino a Canino. Un posto assurdo, in una vallata fuori dal mondo che non sarebbe dispiaciuta a Faulkner. La scelta delle location nel mio lavoro ha la stessa importanza di un casting, può addirittura arrivare a influenzare i contenuti di una scena. Per So che c’è un uomo la ricerca del set definitivo è stata sfibrante, è durata diversi mesi. Il casolare che vedi nel film è un luogo “impossibile”, uno spazio evanescente e geograficamente indeterminabile. Solitamente i film sono organizzati affinché si riconosca subito dove ci si trovi, è tutto rassicurante, mentre a me interessa che lo spettatore si disorienti vedendo questi spazi; è molto importante che faccia uno sforzo di composizione degli ambienti, che riorganizzi mentalmente perfino gli spostamenti dei personaggi. Ripeto, questo è un aspetto per me rilevantissimo; e il modo di inquadrare, senza alcuna pretesa descrittiva, parte da questi presupposti.
Alessio Galbiati: Come sei arrivato alla realizzazione di So che c’è un uomo? Dall’idea alle selezione ufficiale di Corto Cortissimo a Venezia 66, qual è stato il percorso che ti ha portato a produrre il tuo primo mediometraggio? Come sei entrato in contatto con la casa di produzione che ha reso possibile il film?
Gianclaudio Cappai: L’idea artistica risale alla primavera del 2006. All’epoca mi illudevo che – per realizzare il film – avrei seguito un iter produttivo tradizionale, ovvero: produttore capo, domanda ministeriale, I.M.A.I.E., ecc, ecc… a inizio del 2007 mi ero già rassegnato. Inevitabilmente. Dicevano che la storia era troppo strana e avviluppante. E vai quindi con la preparazione esecutiva indipendente. Un triste necessità, se vogliamo. Con la società di produzione per la quale lavoro (hirafilm) abbiamo coperto finanziariamente tutta la fase di preparazione, i sopralluoghi, i casting, i permessi. Finito il 2007, erano finiti pure i soldi (circa 20.000 euro) racimolati in premi festivalieri e prestiti bancari. Panico totale. Stavo quasi per perdere la pazienza e l’entusiasmo, se non che qualcun altro molto più acuto di me pensò bene di coinvolgere nel progetto grossi imprenditori privati. Uno di questi, gentile e lungimirante, ci ha sostenuto alla grande per tutto il periodo delle riprese (avvenute nell’estate del 2008), uno sforzo produttivo considerevole il suo, determinante aggiungerei io. In altri tempi lo avrebbero etichettato come mecenatismo puro, e così un po’ è stato. Ultimate le riprese, rimanevano in cassa 8.000 euro, giusto per far ritorno nella capitale e pagare sviluppo e telecinema di 30 ore di girato. Poi di nuovo al verde, ma con la consapevolezza di tutti che il materiale raccolto spaccava come non mai. E così, mentre il sottoscritto e la montatrice trascorrevano da ergastolani tutto l’autunno-inverno 2008 a montare il film, da Londra due miei cari amici, già intrigati dallo script, si univano come “Demiurgos film” per accollarsi quasi tutte le proibitive spese di post-produzione. Un gesto di immolazione, più che di amicizia. A scanso di equivoci: il film è mio quanto lo è loro. Tra ipoteche, scazzi vari e bonifici inglesi, finalmente si arriva a metà giugno 2009 con il primo master del film pronto per la pre-selezione alla Biennale. L’intera estate del 2009 si volatilizza aspettando l’agognata telefonata da Venezia, il resto lo conosci…
Alessio Galbiati: Quanto ha inciso la scelta di girare in pellicola sul budget complessivo dell’opera?
Gianclaudio Cappai: Poco, molto poco rispetto a quanto si possa immaginare. Non è usando il digitale al posto della pellicola che riesci a farla franca sui costi di alberghi, ristoranti, assicurazioni, diarie, contributi, trasporti, location, turni mix e quant’altro. Su questo bisogna essere onesti. Tra l’altro, mi sembra di capire che manca poco che la Kodak te la dia gratis questa benedetta pellicola; tira una brutta aria da quelle parti, ed è un peccato, perché le ultime emulsioni da loro prodotte sono eccezionali. L’ho sempre detto: eravamo in quattro a menarcela sull’aspetto artigianale del cinema e forse ora, in piena era di “Avatar” visto con gli occhialini di plastica, siamo rimasti in due. In riferimento al mio progetto, ciò che ha fatto impennare i costi è stato il tempo. Il tempo al cinema vale quanto Totti alla Roma. Molte volte non bastavano 10 ore di lavoro al giorno per portare a casa 5 o 6 inquadrature. Ecco, se tu mi chiedessi quanto ha influito la voce “tempo” sui costi, ti risponderei un bell’ 80%, altro che la pellicola…
Alessio Galbiati: C’è qualche opera di riferimento, filmica, letteraria, pittorica, che ti ha guidato o ispirato nella realizzazione del mediometraggio?
Gianclaudio Cappai: Non sono un cinefilo, quindi prima di iniziare il film non avevo alcuna smania citazionistica o dediche particolari. Credimi, dopo che vedi Deserto rosso di Antonioni o certi film di Cassavetes, il bagno d’umiltà è cosi forte da bandire qualsivoglia tentativo di omaggio. Meglio fare i bravi e non cedere alle tentazioni. Mi interessava piuttosto approfondire un certo discorso plastico-figurativo sul cosiddetto “realismo magico”, penso ai pittori americani Eric Fischl, Alex Colville, Andrew Wyeth. Quel tipo di realismo che diventa surrealismo per le solitudini inquietanti, la vita degli oggetti, la desolazione dei paesaggi, la minuzia dei dettagli. E poi tantissima fotografia: ammiro Nan Goldin, Mario Giacomelli, Koudelka, Eugene Richards. C’è più cinema e potenza immaginifica in uno solo dei loro scatti, che in tutta la filmografia di Tornatore.
Alessio Galbiati: So che c’è un uomo è stato presentato in anteprima a Venezia 66 nella sezione Corto Cortissimo. Mi interessa sapere quali ricadute positive ha comportato l’essere selezionati dal festival italiano più prestigioso e popolare.
Gianclaudio Cappai: Ti dico solo che un giro in giostra di quel livello me lo rifarei volentieri, molto volentieri. Era l’anteprima assoluta a cui aspiravo, inutile negarlo. Ringrazio sempre i direttori artistici per aver creduto così tanto nel mio film. È stata un’esperienza esaltante da tutti i punti di vista, che emotivamente ha colmato anni di duri sforzi e sacrifici; e parlo a nome anche dei miei collaboratori più stretti. Per il resto, non mi è cambiata certo la vita. Certo, come puoi immaginare, ti si aprono delle porte fino a poco prima chiuse a chiave, percepisci attenzioni e rispetto dagli addetti ai lavori, forse un certo ostracismo del palazzo romano “fighetto” si ammorbidisce in qualche strizzatina d’occhio, ma è tutto qui, credimi. Considerazioni, queste, che lasciano il tempo che trovano. Aria fritta. Ciò che veramente conta sarà lo spessore e la potenza della prossima sceneggiatura. Se fallisci con quella, il passaggio veneziano rimarrà solo un piacevole ricordo…
Alessio Galbiati: Quali sono le strade possibili concesse ad un’opera coma quella da te diretta per coprire i costi di produzione?
Gianclaudio Cappai: Parliamo sempre di un mediometraggio, pertanto coprire i costi potrebbe suonare, se non utopistico, quantomeno improbabile. Eppure è da poche settimane che abbiamo sottoscritto con una società di distribuzione un contratto di vendita per l’estero; i canali sarebbero un’adeguata rete di rapporti internazionali che consenta qualche passaggio televisivo ben remunerato e, perché no, un’uscita in sala abbinata a qualcos’altro. In Italia, oltre ad un’edizione home video in tiratura limitata, siamo in trattativa con un’altra casa di distribuzione per riuscire almeno ad inserirlo capillarmente in un circuito d’essai. In questo senso siamo molto fiduciosi. Per il resto, e questo è il punto a cui più tengo, il film non può assolutamente prescindere dalla solita trafila dei festival internazionali: qui la visibilità è spesso notevole e i premi in denaro non sono da meno.
Alessio Galbiati: Le performance degli attori sono uno degli aspetti più efficaci del film, tant’è che nelle motivazioni del premio che hai ricevuto all’ultima edizione di Visioni Italiane si fa un esplicito riferimento alle fatto che le «atmosfere rarefatte ed ambigue si incarnano in modo efficace nei volti e nella fisicità degli attori». Come ti sei trovato a gestire un cast di sei attori e come, insieme a loro, hai costruito i personaggi?
Gianclaudio Cappai: Innanzitutto mi sono circondato di un gruppo di attori fedeli e rispettosi. Persone splendide con le quali si poteva discutere e analizzare tutto molto tranquillamente. E questa era una base fondamentale, trattandosi della mia prima esperienza con un cast artistico di soli professionisti. All’inizio si è lavorato molto sulla tattilità, sui gesti, sui silenzi, sulla disposizione e sulla promiscuità dei corpi in spazi tanto angusti e opprimenti. Era un’immersione cosi totale sul “quotidiano” che spesso la distinzione tra personaggi e interpreti era labilissima. Me ne giovavo. Decisivo è stato poi tenere un’emotività di recitazione bassa, privilegiando invece gli istanti, il non detto, le sospensioni, l’energia degli sguardi. Dicevo sempre loro di tenere ben a mente quello che era il passato di questi personaggi, ciò che li aveva logorati, e non solo il passato di colui che stavano interpretando ma anche quello degli altri. Tutti insieme abbiamo operato con un approccio sottilmente psicologico da una parte e concretamente materico dall’altra. Alla fine è stata davvero una grande riuscita corale.
Alessio Galbiati: Quali sono le prossime occasioni per vedere il tuo mediometraggio?
Gianclaudio Cappai: A marzo passerà al cinema Detour di Roma, mentre a metà Aprile lo si potrà vedere al Mecal International film festival di Barcellona e poi a Lisbona, nell’ambito di 8½ – Festa do Cinema Italiano. Sempre nel mese di Aprile, stavolta nella prima settimana, lo proietteranno all’interno degli incontri sul “New italian cinema” di Bloomington, a Indianapolis.
Alessio Galbiati: Hai pensato di renderlo disponibile online, visibile attraverso uno streaming?
Gianclaudio Cappai: Non ancora. Sono passati pochi mesi dalla prima “uscita pubblica” del film, e trattandosi per di più di un prodotto idoneo in primis al grande schermo, uno streaming online per il momento lo reputo prematuro se non azzardato. Sicuramente in futuro si potrà considerare questa ipotesi di fruizione, ma ora come ora la corsia preferenziale la vogliamo riservare alla visione in sala, nei festival, nelle rassegne, insomma in quegli spazi che ti offrano anche la possibilità di un confronto diretto e di discussione con il pubblico.
Alessio Galbiati: So che c’è un uomo è la tua sesta regia, la prima opera che si confronta con una durata importante dopo quattro cortometraggi ed il docufilm Sollevate e fermi!. Quali sono le tematiche a te più care, quelle che hai portato avanti dal tuo primo lavoro o, più in generale, quale ritieni possano essere le caratteristiche peculiari del tuo cinema?
Gianclaudio Cappai: La tua in un certo senso è una domanda che mi lusinga e ti ringrazio, ma è un po’ esagerata non avendo ancora realizzato alcun lungometraggio. I miei primi cortometraggi erano derivativi esercizi di messa in scena oppure saggi di diploma eseguiti all’ Accademia dell’immagine, in quel dell’Aquila. È soltanto con i miei ultimi due lavori che ho iniziato a vedere la luce, raggiungendo un’intensità di stile e di racconto che sento molto miei. Diciamo che fino adesso ho cercato di rimanere in un contesto poetico in cui non vi fosse nulla che andasse al di là della prospettiva degli esseri umani. Nei miei lavori non c’è nulla che si imponga dal di fuori, come già dato. E questo si riflette molto nel mio stile di ripresa, a volte vicinissimo ai corpi, altre volte paragonabile ad un pudico sguardo di qualcuno che si trova a spiare determinate situazioni, quasi sempre famigliari. In entrambi i casi mi interessa che lo spettatore percepisca questo sguardo sempre e comunque come quello di un essere umano. È solo così che io regista posso condividere ciò che sento, rendendo lo spettatore molto più fragile e poco incline a dare dei giudizi morali su ciò che ha visto. Il cinema mi ha concesso questa possibilità di condivisione. Non è poco…
Alessio Galbiati: Attualmente stai lavorando alla scrittura del tuo primo lungometraggio. Ci puoi accennare di cosa si tratta?
Gianclaudio Cappai: Sono ancora nella fase, se non proprio embrionale, degli sporadici spasmi per ogni idea partorita. È un work in progress da solitari, lentissimo. Io scrivo sempre da solo, anche nel cinema. Per me la scrittura è una faccenda molto intima, difficile da condividere. Scrivendo con qualcun altro, devi continuamente spiegare cosa intendi esprimere e il progetto perde la sua carica emozionale. Adesso, per esempio, sto lavorando al trattamento del mio primo lungometraggio. Scrivo e appaiono gli ambienti, i personaggi, le loro relazioni, traccio degli schemi, ma quando devo parlare coi produttori, che vogliono trame e spiegazioni, mi trovo a dover spiegare una storia che è completamente irrazionale, immorale, malsana, che è psicologicamente scorretta. Perché un personaggio fa una determinata cosa? Non lo so, l’importante per me è che la faccia, non mi interessa se è per il complesso edipico o cos’altro. Vedremo cosa ne verrà fuori, ti posso solo anticipare che sarà girato nella spettrale pianura ungherese e che mi piacerebbe tanto lavorare con Alba Rohrwacher, attrice di immensa sensibilità che inseguo da sempre.
Alessio Galbiati: E per concludere una domanda autoreferenziale, che da tempo mi ostino a porre a conclusione delle interviste per capire qualcosa di più di quel che faccio, per provare a migliorarlo… Cosa dovrebbe fare al giorno d’oggi una rivista cinematografica per aiutare concretamente il cinema indipendente? Quali sono gli aspetti delle opere a cui dare maggiore attenzione?
Gianclaudio Cappai: Già il fatto che esistete come una realtà di divulgazione culturale è di per se una cosa preziosa e stimolante. Anzi, basterebbe questo per tenere alto lo spirito di supporto di cui certo cinema italiano (underground?) non può proprio fare a meno. Fossi in voi eviterei senza dubbio settarismi vari o entusiastici voli pindarici, mentre darei grande risalto a tutte le opere in cui si INTRAVEDE una sincerità, una ricerca di innovazione, una voglia di sovvertire il senso comune, un barlume di poesia, una coerenza di intenti che faccia riflettere o che in qualche modo emozioni. Non importa se nel bene o nel male, l’importante è che sia un’opera che pulsi, che abbia sangue che scorra sotto e dentro le storie. Purtroppo, oggi parte del cinema italiano è troppo anemico…
SO CHE C’E’ UN UOMO (Italia/2009)
In uno squallido casale di campagna, sotto un caldo afoso e opprimente, si trascinano i dubbi, le paure e i malesseri di una famiglia senza controllo.
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NOTE DI REGIA di Gianclaudio Cappai
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GIANCLAUDIO CAPPAI (Cagliari, 1976)
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