Il presente articolo è stato pubblicato in Rapporto Confidenziale numero30 (dic/gen 2011)
«Sei autori in cerca del personaggio. No comment.»
– Nello Santi, produttore del film
«Lo svitato è stato colpito dalla critica perché sembrò, dopo due film come Achtung banditi! e Cronache di poveri amanti, il cambiamento immotivato di un regista che era stato catalogato, seppur più giovane, come neorealista.»
– Carlo Lizzani
Achille lavora come factotum presso un quotidiano, ma ha il sogno di diventare giornalista. Dopo aver scritto un pezzo (in parte inventato) su un pugile dal cuore d’oro che gli viene sottratto da un collega e osannato dalla redazione, Achille prende coraggio e decide, spinto dall’amico Gigi, di creare una notizia per poi avere l’esclusiva. Decidono così di sequestrare i cani di una mostra canina e di liberarli dopo qualche giorno, in modo così di avere il doppio scoop del sequestro e del ritrovamento. Achille spera così di diventare un giornalista e di conquistare il cuore della bella Elena.
Milano cerca la sua identità
Sin dalla prima inquadratura, Lizzani vuole farci capire in che città ci troviamo, introducendoci in un contesto ben preciso. Non siamo nella Roma saldamente ancorata alla sue rovine (dell’Antichità e della Seconda Guerra Mondiale), ma siamo in una città che sembra priva di un passato ma affamata di futuro: Milano è una città neonata, che giorno dopo giorno, cresce e si sviluppa. Non è un caso che l’immagine di apertura del film sia proprio quella di un cantiere popolato da muratori e da enormi gru, macchinari che sembrano essere i numi tutelari del futuro della città. Gru vorticano sopra i cieli di Milano, mentre il suo terreno è costantemente trivellato: Milano è una città in costruzione, che non ha ancora trovato un suo equilibrio architettonico e sociale, che è alla continua ricerca di un’identità che finalmente incontrerà (e non poteva essere altrimenti) nello sguardo entusiasta e ancora positivo del boom economico. Milano e i suoi abitanti sembrano avere trovato qualcosa in cui credere, qualcosa su cui fondare l’identità della propria città: il denaro ed il successo. E Milano si muove, si muove velocemente e crea, costruisce, aggrega. Ci sono i bar, le osterie, le sale da biliardo, le palestre e i night club, luoghi in cui ribolle la vita e il commercio.
Achille pie’ veloce
È solo dopo questa sequenza di apertura che compare Achille (Dario Fo), il protagonista della pellicola, uomo alla continua ricerca di un’aderenza nei confronti di una città che, spontaneamente, lo rigetta. Achille corre, questo è chiaro. Subito dopo essersi svegliato, comincia a correre e non si ferma mai, catapultato incessantemente da casa al posto di lavoro, dalle commissioni alle uscite serali. Nella sua corsa non c’è la frenesia della Milano degli anni Cinquanta, c’è piuttosto l’entusiasmo del dopoguerra, entusiasmo quasi aprioristico, che investe qualsiasi cosa, dal lavoro, all’amore, dal divertimento all’architettare una truffa. «Il primo contatto con Milano è subito esaltante. Gran parte della città è in macerie, ma basta un primo contatto con l’ambiente giornalistico e artistico per farci sentire Roma lontana e provinciale»; è con queste parole che Carlo Lizzani descrive il suo arrivo a Milano nell’immediato dopoguerra, parole in cui sembra riflettersi in maniera limpida l’entusiasmo e l’euforia di Achille, la sua voglia di sentirsi parte di grande ingranaggio il cui scopo è quello di rendere più grande e più importante la città (e quindi ognuno dei suoi abitanti).
L’entusiasmo di Achille non conosce freno, nemmeno quello spietato e crudele dei meccanismi della città. Il successo che il ragazzo insegue con così tanto investimento di forze, è più il desiderio di sentirsi attivo nella costruzione di questa nuova Milano che speranza di scalare classi economiche e sociali. Al contrario dell’amico Gigi, la truffa che Achille architetta non è una semplice speculazione giornalistica, quanto l’unica e reale possibilità di diventare finalmente qualcuno e quindi degno di potersi definire parte attiva nella fondazione della città. Perché Milano non ha occhi di riguardo per i suoi abitanti, e solo la fortuna, la furbizia e un po’ di ingegno, può dar loro la possibilità di trovare un posto tra le sue vie, i suoi palazzi.
La maschera di Achille
L’esordio di Dario Fo sul grande schermo non venne accolto dalla critica in maniera positiva, che definì inadatta per il cinema la sua fisicità, il suo gesticolare e le sue espressioni di stampo teatrale. Rivista oggi invece, l’interpretazione di Dario Fo (che è anche sceneggiatore del film con Lizzani, il fratello Fulvio e Augusto Frassinetti, Massimo Mida, Bruno Vailati) rimane forse l’unico esempio nel cinema italiano di una comicità del tutto giocata sul corpo, i cui modelli sono sicuramente i comici del muto (più Keaton che Chaplin) e il più recenti Monsieur Hulot di Jacques Tati, che tre anni prima si era fatto conoscere anche all’estero grazie al primo lungometraggio “Le vacanze di Monsieur Hulot”. E così Dario Fo corre a perdifiato per Milano superando tram stracolmi di persone, si agita gesticolando ed espone le sue emozioni con un misto di timidezza e risolutezza che fanno del suo Achille una maschera estremizzata ma al contempo profondamente umana. Questo aspetto lo rivela anche il finale della pellicola che, con i toni della favola, risistema la vita di Achille che, nonostante la sfortuna avuta (il colpaccio non è andato bene e Gigi è scappato con la sua innamorata) riesce lo stesso a trovare l’amore, dapprima ritenuto impossibile, per la femme fatale Diana (Franca Rame), fascinosa ma intelligente e soprattutto pronta a donare il suo amore senza alcun tornaconto.
Carta stampata
Un elemento importante del film è il ruolo dell’informazione. Lo stesso Lizzani, vide Milano la prima volta proprio grazie al giornalismo quando, nel 1945, vi si trasferì per un anno a lavorare nella redazione del settimanale “Film d’oggi”, nato dalle ceneri del fascista “Cinema” (di proprietà di Vittorio Mussolini) grazie all’iniziativa dello stesso Lizzani e di Giuseppe De Santis e Gianni Muccini (che ne diventò il direttore). Quella de “Lo svitato”, è però un giornalismo del tutto diverso da quello abitato da Lizzani. Achille lavora in un giornale della sera che fagocita pettegolezzi, notizie di poco conto gonfiate fino all’estremo e che obbedisce ciecamente alla regola che cane che morsica uomo non è una notizia, mentre uomo morsica cane invece lo è. La critica feroce (ma sempre divertita) mossa da “Lo svitato” nei confronti di questo giornalismo degenerato è uno degli aspetti più moderni e attuali della pellicola. L’idea stessa alla base del film è una critica in tutto e per tutto a questo sistema: Achille e l’amico Gigi non documentano un fatto, ma costruiscono una notizia, provocano direttamente il fatto per poi raccontarlo come meglio credono. L’altro momento in cui il giornalismo viene preso di mira, è l’incontro in redazione con il Mostro (interpretato da Franco Parenti, in quel periodo sodale di Dario Fo), una sequenza di assoluta comicità cinica e grottesca infarcita di una critica sociale proiettata nel futuro che, seppur slegata dalla struttura narrativa, è uno dei momenti meglio riusciti della pellicola.
Lo sguardo di Lizzani
Con alle spalle una decina di film, tra documentari e film di fiction a tema storico (e comunque improntati su un registro drammatico), Carlo Lizzani dirige nel 1956 “Lo svitato”, una delle sue poche incursioni nella commedia e, sicuramente, quella meglio riuscita. Se l’apporto di Dario Fo è riconducibile alle invenzioni comiche, al taglio moderno dell’umorismo e alla satira sociale, la mano di Lizzani si fa notare nella descrizione atipica di una Milano che parte dal basso ma la cui risalita è ancora un work in progress. Per questo lo sguardo di Lizzani si concentra quasi unicamente nella descrizione della Milano popolare con i suoi bar, i suoi tram e i suoi locali, ma sfruttando l’architettura della città per rendere più spettacolari alcune sequenze. Il contributo di Lizzani più importante è però riconducibile all’atmosfera realistica che si respira durante la visione: il film comico (soprattutto se sfruttava una comicità surreale come fa “Lo svitato”) all’epoca era sempre circondato da un’aurea naïve, un’atmosfera giocosa, teatrale. Lizzani cala la comicità sopra le righe di Achille in un contesto del tutto realistico, grazie anche all’uso di location reali (molte scene sono in esterna e poche sono girate in studio di posa) e di una precisione nella descrizione fisica dei luoghi. •
Matteo Contin
+ + +
RASSEGNA STAMPA 1956
[…] “Lo svitato” rimarrà ineguagliabile come esempio di infantilismo umoristico. Dall’incapacità eschimese di baciare con le labbra, a quella antropofaga di cibarsi di frutta e verdura, tutte le native inibizioni degli uomini mi tornarono in mente e mi afflissero, durante la proiezione del film. Per carità, non parliamo di ciò che vi accade. Ne “Lo svitato” niente è quello che è e niente è un sovvertimento, o un’astrazione, o una qualunque intelligibile deformazione di quello che è. “Helzapoppin”, dunque? Volesse il cielo. Tutto, al contrario, qui è realistico e organico, ma stolto. Uno scemo corre più dei tram e dei campioni impegnati in una gara podistica, ma nessuno lo toglie di mezzo affibbiandolo allo sport. Una intenzionale beffa dei giornali scandalistici, riabilita i giornali scandalistici. Due ragazze vanno e vengono senza saper che fare. Gratuite apparizioni di palestre ginnastiche, di bigliardini, di scuole di ballo. Un gag charlottiano (quello dei telefoni incrociati) affianca stupito un gag margadonniano (quello del vigile immunizzato da uno scroscio di frasi retoriche); battute come «Dai, vieni via», sfiorano battute come «In casa sono sempre io che agucchio»; un che di floscio, di grinzoso come una vescica o una matrice vuota, mi inflisse, da ogni inquadratura del film, una vaga nausea e una lunga pena.[…]
– Giuseppe Marotta da “Questo buffo cinema” (Bompiani, 1956)
[…] Certo che da un regista come Carlo Lizzani si sarebbe desiderata una più conclusa armonia narrativa, una meno facile episodica, una più concreta vitalità di soluzioni, ma siamo sul piano del grottesco e come non apprezzare quella novità di proposte comiche e quella tutta fresca e scattante dose d’umorismo che pervade anche i temi più comuni? Il pubblico, così, pur sconcertato da certe innovazioni che, spesso, non gli hanno consentito di cogliere le sottigliezze delle diversissime e contrastanti parlate d’ogni personaggio, ha prestato allo scherzo un’attenzione divertita e cordiale. […]
– Gian Luigi Rondi da Il Tempo del 4 marzo 1956
LO SVITATO
regia: Carlo Lizzani; sceneggiatura: Dario Fo, Fulvio Fo, Augusto Frassinetti, Carlo Lizzani, Massimo Mida, Bruno Vailati; fotografia: Armando Nannuzzi; montaggio: Enzo Alfonzi; musiche: Roberto Nicolosi; suono: Alberto Bartolomei, Gabriele Della Vedova; operatore: Marcello Gatti; scenografie: Mario Sertoli; scenografie e set: Pek G. Avolio; trucco: Duilio Giustini; acconciature: Gustavo Sisi; aiuto regia: Dario Fo, Massimo Mida; produttore: Bruno Vailati; direttore di produzione: Mariano Englen, Gino Mordini; interpreti: Dario Fo, Franca Rame, Giorgia Moll, Leo Pisani, Riccardo Tassani, Umberto D’Orsi, Carlo Bagno, Antonio Cannas, Cioni Carpi, Giancarlo Cobelli, Franco Ferrari, Amedeo Girardi, Umberto Molino, Laura Piatesi, Enrico Rame, Jacopo Fo; produzione: Galatea Film; distribuzione: Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (ENIC); paese: Italia; anno: 1956; data di uscita nelle sale italiane: 20 marzo 1956; visto di censura: 21231 del 20-02-1956; durata: 98’