The Struggle di David W. Griffith (USA/1931)
di Leonardo Persia
«Il film più inetto mai realizzato», secondo l’Herald Tribune, il giorno dopo una terrificante prima avvenuta il 10 dicembre 1931 al Rivoli Theatre di New York, con il pubblico spietatamente sghignazzante. La disastrosa accoglienza lo marchiò per sempre come ultimo lavoro di David W. Griffith (1875-1948), il padre del cinema (non solo americano), che avrebbe voluto girare altri film, e continuerà a sperare di farlo, invano, fino alla morte.
L’argomento è l’alcolismo, vaga ispirazione naturalistica francese, L’assommoir di Zola, incursione subito considerata fuori moda, improponibile, lasciata ai B-movie come il coevo Ten Nights in a Barroom di William A. O’Connor, per un pubblico non certo raffinato. Sul tema lo stesso Griffith aveva detto la sua, in epoca pre-Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, USA/1915), con i toni moralistici allora in voga: A Drunkard’s Reformation (1909), The Expiation (1909), Drink’s Lure (1913), opere di un certo riscontro.
Anita Loos, sceneggiatrice con John Emerson, avrebbe preferito, se proprio, una variazione ironica sul tema. Jimmy Durante nel ruolo di Jimmie Wilson, affidato invece, su sfondo cupo, a Hal Skelley. Operaio newyorchese, che sopraffatto dal proprio vizio, viene catapultato dalla tranquillità di una vita familiare standard, moglie e figlioletta, sorella convivente, con annesso lavoro di caporeparto in una fonderia, allo sconfinamento nell’altro lato dell’esistenza, povertà, abbruttimento, emarginazione. Senza casa né status né lavoro, barbone disperato con gli occhi iniettati di disperazione e follia. Un vero mostro, che infatti alla fine, preso da delirium tremens, cerca di azzannare la figlia, in un sordido casone molto epoca del muto, filone poliziesco o immigrazione. Una situazione analoga vista già in Giglio infranto (Broken Blossoms, USA/1919).
Gli esterni di New York, frenetici e spietati, in cui l’uomo deambula, territorio di indifferenza e di sermoni moralistici dove un drammatico sfratto, con gli oggetti di una vita buttati per strada, fanno parte indifferenziata di un paesaggio cupo quanto più esposto alla sua trasparente luminosità, hanno un atipico realismo fotografico e di ripresa, crudo come nemmeno nei coevi city gangster movies.
La creativa informalità delle riprese lasciano pensare a un desiderio di ricerca non ancora sopito nell’autore. Siamo agli inizi del film parlato, spesso imbalsamato in teatri di posa con piani americani e strategica persistenza dei dialoghi, allungati per evitare il cambio di scena, la mobilità della macchina da presa e soprattutto dell’asta del microfono. L’altro film sonoro di Griffith, Abramo Lincoln (Il cavaliere della libertà, USA/1930), dell’anno precedente, soffriva proprio di staticità, immobilizzato in una messinscena impacciata e sprovveduta. The Struggle è invece una sfida anche in senso tecnico ed espressivo, un’opera che cerca di superare l’impasse della forzata reinvenzione della regia cinematografica. E che attacca frontalmente i tempi moderni, ridimensionati in una promessa non mantenuta di benessere e felicità.
Siamo due anni dopo il crollo di Wall Street e la crisi mondiale del 1929: la trasformazione sociale di Jimmie è la stessa di tanti uomini e donne americane, alcolizzati o no. L’alcool è un pre-testo, un perno narrativo su cui far ruotare la storia, anche una risposta inevitabile alla disperazione su cui il film soprattutto si concentra. Sul licenziamento dell’uomo in quanto ubriacone e la successiva estromissione da un cantiere per mancanza di forze, è evidente il peso di tale perno, che giustifica gli accadimenti. E tuttavia, pur stretta nell’ottica di denuncia di un vizio comunque realistico (sono gli anni del Proibizionismo), la situazione non è lontana da chi, in quel periodo, si era trovato, da un momento all’altro, vittima di un’estromissione sociale.
Non si può tacere dell’insensibilità della folla, tema già presente nel capolavoro muto di King Vidor The Crowd (La folla, USA/1928) e che l’autore voleva particolarmente mettere in risalto. Ancora più impressionante la descrizione, non del tutto meditata, della spietatezza di una società che non ammette trasgressione né sconfitta e si crogiola in una falsa sicurezza perbenista da cui si può essere scacciati da un momento all’altro. Un quadro magari involontario, certo espressione di un lapsus emerso dal contesto moralistico e ammonitore che il film avrebbe dovuto far risaltare e che invece, come il protagonista, sconfina altrove, volente o no.
Emblematica la situazione della sorella di Jimmie che abbandona, tra le lacrime, il neo-fidanzato per non comprometterlo con una famiglia compromessa. Sulla strada, i bambini che sorprendono Jimmie a chiedere l’elemosina (volto schifato anche di chi gliela concede, rifiuto ipercilioso degli altri, con l’invito perentorio ad andare a lavorare), subito corrono dalla piccola Marie, figlia del disgraziato, per deriderla e punzecchiarla. Quest’ultima, immediatamente in corsa per raggiungere il papà, escluso ormai dalla vita familiare, incappa in passanti indifferenti o, nel peggiore dei casi, nevrotici, che la rimproverano d’intralciar loro il passo.
Tale quadro non è certo l’opposto dei bar sordidi frequentati da Jimmie (semmai più solidali) o dalla coppia di mascalzoni, un uomo e una donna, in cui incappa e che gli rubano i proventi della polizza d’assicurazione. Non lo è neppure dell’ambiente domestico, Florrie che a casa cuce a ritmi forsennati per fronteggiare alla meno peggio la povertà cadutale addosso. Le immagini del lavoro in fonderia, visto come una conquista sociale, presentano la faticosa attività in una maniera assai più dura di quanto non lo sia quella della distilleria clandestina.
Un mondo terribile, sia che abbia a che fare con l’esclusione o l’inclusione sociale. Si veda la scena della festa, con gli invitati scandalizzati dall’arrivo di Jimmie barcollante. E si pensi pure alle futili cause scatenanti la ricaduta nell’alcool da parte dell’uomo, l’indossare forzato di una cravatta non gradita a cui lo costringe la moglie.
Segno di una fragilità sostanziale dell’uomo americano tranquillo il cui vanto sono coraggio e integrità di carattere, doti precarie quanto forzate. Ed emblema, anche, dei piccoli e distruttivi ricatti dell’istituto matrimoniale borghese. Florrie promette di sposare Jimmie, a patto che l’uomo non tocchi più una goccia d’alcol. La donna, interpretata dalla Zita Johann che, nello stesso anno, è ipnotizzata da “La mummia”, qui è lei a ipnotizzare lui, scatenato in un assolo tra l’umoristico e l’alcolico in una party dell’età del jazz, e poi immediatamente colpito da quello sguardo che diventa sguardo a due, schermo incantato in cui anche lo sguardo degli spettatori si perde solidale. Nella penosa scena dello sfratto, dalla radio arriva una voce che il regista tronca volutamente, effetto del cambio di emittente: “Ricordatevi, cari ascoltatori, se lo volete davvero, il mondo è…” Parte un sermone, il suono di un organo che diventa il contrappunto paradossale della disperazione di Jimmie.
Di queste pennellate in nero, di cui Griffith sente il peso, in quanto anch’egli vittima sottoposta alla precarietà del proprio status, il film è imbevuto, assai più di quanto Jimmie non lo sia di whiskey. Più della rabbia, i fotogrammi evocano un sentimento di nostalgia che mima quello in lacrime degli alcolisti. In una scena datata 1923, si dice che l’America conoscerà una prosperità come non mai. «Nel 1930 sarai ricca» viene augurato a una ragazza il cui padre ha acquistato delle azioni. Impossibile non pensare al nuovo contesto di crisi economica, al sogno diventato incubo. L’abbruttimento tremens che porta Jimmie ad aggredire, per ucciderla, la non riconosciuta figlioletta, è espressione di un contesto familiare perturbato, pillola unheimlich.
Le immagini di apertura, una festa all’aperto, retrodatate all’epoca in cui Griffith imperversava (1911), non diverse da quelle già imbastite all’epoca del muto (la festa di The Avenging Conscience, 1914, per esempio) sono ugualmente malinconiche. Il maestro del montaggio parallelo fraziona adesso la scena in quadri paralleli. Si serve del sonoro come elemento imprescindibile, necessario: facendo parlare gli attori del vecchio cinema che fu (della Biograph e di Mary Pickford), della politica e dello stato delle cose. Ironia un po’ commossa, spruzzata di speranze e bisogni che si sanno disattesi.
Per questo, c’è il tormentone di una battuta ricorrente, quella dell’imminente matrimonio di Peggy. Quando l’azione scivola verso gli anni ’20, qualcuno osserva che Peggy non si è ancora sposata. E scopriremo che, neppure alla fine del film, il lieto evento si è verificato. Cent’anni dopo, siamo ancora, malinconici e disperati come Jimmie, in attesa di quel matrimonio.
LP
The Struggle (La folla)
Regia: David W. Griffith
Sceneggiatura: John Emerson, Anita Loos, D.W. Griffith (non accreditato)
Fotografia: Joseph Ruttenberg, Nick Rogalli (non accreditato)
Montaggio: Barney Rogan
Musiche: David W. Griffith (non accreditato), Philip A. Scheib (non accreditato)
Produttore: D.W. Griffith (non accreditato)
Production Management: Raymond A. Klune
Interpreti: Hal Skelly, Zita Johann, Charlotte Wynters, Evelyn Baldwin, Jackson Halliday, Edna Hagan, Claude Cooper, Arthur Lipson, Charles Richman, Helen Mack, Scott Moore, Dave Manley
Casa di produzione: D.W. Griffith Productions
Distribuzione: United Artists
Paese: USA
Anno: 1931
Durata: 87′