The Girl with the Dragon Tattoo > David Fincher

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Innanzitutto chiariamo subito un punto : questo film NON è il remake della versione svedese in lingua uscita un paio di anni fa, bensì una nuova riduzione cinematografica dello stesso libro, ovvero il primo tomo della ormai celeberrima e celebratissima (e bellissima, a mio giudizio) trilogia “Milennium”, che in realtà è una saga mancata poiché come molti sanno il suo creatore Stieg Larsson, già apprezzato giornalista di economia in patria, è scomparso poco dopo aver consegnato alla casa editrice i primi tre volumi di quella che sarebbe dovuta essere una serie di libri con protagonisti Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander e caratterizzati, secondo alcune dichiarazioni dell’autore stesso, da un “tono” diverso per ogni libro (giallo, orrore, spionaggio, poliziesco, e così via), il che spiega lo stile molto diverso dei tre capitoli esistenti, e soprattutto la strana struttura “lungo prologo/giallo/lungo epilogo” del primo libro dal quale il film di Fincher è tratto.
Ma la domanda resta: a parte il fatto che gli americani si rompono le cosiddette a leggere i sottotitoli c’è un’altra ragione che giustifichi l’esistenza di una seconda “riduzione” (come direbbe Madonna) cinematografica, per giunta a così breve distanza dalla prima che oltretutto già ha conquistato milioni di fans in tutto il mondo (paesi anglofoni compresi)?
Beh, una ragione, in effetti c’è: questo film è migliore del primo.
Chiunque abbia letto le ultime saghe letterarie di grande successo (Harry Potter, tanto per citarne una a caso) e ne abbia visto in seguito o prima ancora le versioni cinematografiche, avrà notato come nelle trasposizioni odierne i produttori si affannino, molto più che in passato, a realizzare film che da un lato risultino interessanti per chi non ha idea di cosa si stia per vedere e dall’altro non deludano i fan sfegatati dei libri stessi, pronti armi in mano a scovare ogni tradimento all’“unità artistica” dell’opera da loro tanto amata e di conseguenza a demolire l’intero progetto su ogni blog, forum, social network del pianeta, il che per una serie che si suppone lunga e redditizia può essere una catastrofe di proporzioni bibliche.
A volte il rispetto dell’intreccio originale può portare a risultati soddisfacenti, a volte no.
Il primo “Gli uomini che odiano le donne” (“Män som hatar kvinnor” di Niels Arden Oplev, 2009) non era poi così male, ma i dialoghi trascritti pedissequamente causavano qualche lungaggine di troppo e il finale, che sulla carta funzionava benissimo, su celluloide risultava un po’ troppo stonato col tono generale del film. Alcuni personaggi importanti nello sviluppo delle vicende (come i membri dello staff della rivista “Millenium”, da cui la serie prende il nome, o il boss della società d’investigazione nella quale Lisbeth lavora) venivano fatti sfilare dando per scontato che lo spettatore sapesse perfettamente chi fossero, lasciando all’oscuro i “neofiti”. Insomma, accontentati sia gli estimatori irriducibili che gli spettatori casuali in cerca di un brivido (l’intreccio giallo resta comunque avvincente, anche se perfino io che conoscevo già il libro ho fatto fatica a seguire alcuni passaggi) ma la qualità puramente cinematografica non andava oltre un onesto thriller da serata con gli amici.
La prima vittoria di “Uomini che odiano le donne” versione U.S. è proprio questa: il film non rispetta il libro come se fosse la bibbia. Lo riscrive, lo sintetizza, ne tiene gli aspetti fondamentali riscrivendo alcuni dialoghi nel libro piuttosto lunghi e risolvendoli in ottimi botta e risposta. Una sceneggiatura solida asciutta, molto intelligente e soprattutto CHIARA. A questo aggiungiamo David Fincher, incontestabilmente uno dei migliori registi della sua generazione, se non il migliore (basti pensare a “Se7en”, che ha dettato legge nel modo di concepire un certo tipo di thriller orrorifico, ma difficile pensare a un suo film che non fosse in qualche modo memorabile… sì, “Benjamin Button” è bellissimo, mi spiace per chi non la pensa così). Io non so quale santo in paradiso lo protegga, ma la libertà creativa di cui dispone ha qualcosa di stupefacente. Non so quanti altri cineasti americani possano fare film di 2 ore e quaranta in cui viene lasciato spazio ai piccoli momenti, in cui ci si prenda il tempo per scoprire, per assaporare, perfino per affezionarsi ai personaggi. Non voglio fare il vecchio bacucco, ma è innegabile che oggi in un certo tipo di cinema mainstream nell’epoca di “Sucker Punch”, tutto questo sia stato sostituito dallo choc visivo, e si abbia più la tendenza a meravigliare, a volte a “elucubrare” (come nel caso del bravissimo Christopher Nolan) ma sempre meno a raccontare.

Se vedrete questo film, che abbiate letto i libri o meno, vi invito a notare alcuni dettagli della scena in cui Lisbeth e Mikael sono di fronte al PC: Lei un genio dell’informatica e lui un giornalista che ha passato i 40 (bello come il sole, scusate ma dovevo dirlo), lei usa la tastiera come fosse uno spazzolino da denti e lui impiega un minuto per aprire una pagina. Lo sguardo infastidito di lei. Una scena che descrive il rapporto tra i due personaggi in una sola, divertente scena di qualche secondo e che spiega da sola 70 pagine di libro. Questa è una riduzione cinematografica come dovrebbero essere sempre fatte.
Un film è un film, non il videoclip del libro.
Il regista del primo film ha dichiarato «Non capisco averne fatto due film, che bisogno c’è di andare a vedere un secondo film se c’è già il primo?». Di norma sarei d’accordo, Ma in questo caso è il primo film che non sarebbe dovuto mai essere prodotto, non questo. E basta mettere a confronto la scena “climax”, in cui si scopre l’identità dell’assassino, presente ovviamente in entrambe le pellicole, per comprendere che non c’è davvero confronto che regga (per non parlare dei 30 minuti di epilogo).
E dulcis in fundo, in questo film si ha perfino il coraggio di eliminare o, per meglio dire, semplificare un dettaglio sullo scioglimento dell’intreccio che per gli adepti sarà quasi un’eresia, per me (che pure sono stato tra quelli che si è letto i tre libri tutti d’un fiato) è un tocco di classe. Ripeto: il cinema è cinema, la letteratura è letteratura.
Insomma via: una sceneggiatura ottima, una regia perfetta, un cast azzeccatissimo (molto più di quello di prima, per quanto Noomi Rapace sia diventata una star) diretto in modo impeccabile, una produzione di alto livello e un film perfino meno “americano” di quello svedese, che era molto più sensazionalistico e “commerciale” sotto molti aspetti. Non sono un “americofilo” e viva il cinema europeo tutta la vita, ma quando gli americani lo fanno meglio sia tecnicamente che artisticamente (e non succede spesso in questo tipo di confronti “diretti”, per fortuna nostra), tirare fuori pretesti ideologici è perfettamente inutile.

Maurizio Mongiovi

The Girl with the Dragon Tattoo
(tit. italiano: “Millennium – Uomini che odiano le donne”, USA-Svezia-Gran Bretagna-Germania/2011)
Regia: David Fincher
Soggetto: Stieg Larsson (Romanzo: “Män som hatar kvinnor” – “Uomini che odiano le donne”)
Sceneggiatura: Steven Zaillian
Musiche originali: Trent Reznor, Atticus Ross
Fotografia: Jeff Cronenweth
Montaggio: Kirk Baxter, Angus Wall
Scenografie: Donald Graham Burt
Direzione artistica: Frida Arvidsson, Linda Janson, Pernilla Olsson, Tom Reta, Kajsa Severin, Mikael Varhelyi (supervisore)
Costumi: Trish Summerville
Interpreti principali: Daniel Craig, Rooney Mara, Christopher Plummer, Stellan Skarsgård, Steven Berkoff, Robin Wright, Yorick van Wageningen, Joely Richardson, Geraldine James,
Goran Visnjic, Donald Sumpter, Ulf Friberg, Bengt C.W. Carlsson
158′





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