Goodbye ’68 – La contestazione secondo Koji Wakamatsu

Goodbye ’68 – La contestazione secondo Koji Wakamatsu
articolo di Leonardo Persia

Impossibile prescindere dall’ideale tetralogia contro-sessantottesca di Koji Wakamatsu. Violenza senza causa (Gendai sei hanzai zekkyo hen: riyu naki boko), Storia di amanti moderni: la stagione del terrore (Gendai kosyokuden: teroru no kisetsu) (del 1969), Sex Jack (Seizoku) e Shinjuku Mad (Shinjuku maddo) (del 1970). Tutti e quattro costituiscono, a caldo, prima dello «storico» United Red Army (Jitsuroku rengo sekigun: Asama sanso e no michi) del 2007, il punto più disillusorio e distopico del movimento, un febbrile requiem di disincanto a base di tipicamente nipponico eros + massacro (soprattutto interiore). Più privato, ma altrettanto corrosivo, il coevo (1969) Running in Madness, Dying in Love (Kyoso Joshiko), sul sopravvento dei sensi di colpa e quindi della restaurazione pre-sessantottina.

Li firma un regista all’epoca poco più che trentenne, già militante disinquadrato, persino fan dell’Esercito Rosso Giapponese (le Brigate rosse del Sol Levante), nonché membro sui generis dello yakuza a Shinjuku, il quartiere chic & trade di Tokyo. Della sua essenziale e incendiaria forma B (Bataille più B-movie) Nagisa Oshima farà «bella copia» con L’impero dei sensi (Ai no Korida) (’76), di cui Wakamatsu fu produttore esecutivo oltre che ispiratore più o meno confesso.

I film costituiscono un vero e proprio addio al ’68, in un’epoca in cui, in Occidente, il dibattito era soltanto alle prime armi (non bianche). L’apparenza para-porno, con annessa drammaturgia ai minimi termini, si esplicita in una sola idea portata alle estreme conseguenze monomaniache. Dietro c’è però il trionfo esaltante del sotto-testo che prolifera in sintonia con il livellamento brechtiano dell’emozione/identificazione. Vi s’intuisce compiutamente, e senza elucubrazioni di scrittura, il grigio insostenibile dei nostri giorni. Forse le spruzzate di colore che, nel momento più opportuno, infrangono il dimesso ma pungente b/n, sono le aperture più esplicite (e tetre) al (non) futuro. L’altro lato dell’arcobaleno. La vera immagine del Mago di Oz. Un’iniezione micidiale di forma contenuto «spermespressionista», tra Ėjzenštejn e Glauber Rocha (che coniò il termine a proposito dell’Ivan Groznji, 1944-46, del primo).

La lotta di classe che è un’invidia di classe. La libertà come approdo al nulla mortifero (canne, sbronze e rock’n’roll). Il senso di inadeguatezza delle nuove generazioni, incapaci di affrancarsi dai padroni/genitori e dreamers solo di consumi. Il tempo mono-tono e piatto (restituito come pura cifra espressiva) dove nulla accade. La restaurazione fallocentrica e la definitiva vittoria della donna oggetto che trova la propria identità nel culo e nelle tette (anche e soprattutto rifatti). Molto prima dell’«abiura» pasoliniana, i quattro film, tutti variazione acida sul tema sado-maso massimale (alla Fassbinder), dimezzano il carattere eversivo della cosiddetta rivoluzione sessuale. Restituita allo spettatore come accesso senza limiti al noiosissimo e asessuato erotismo neo-liberista. Con la tritura, all’unisono, e senza nostalgie umanistiche fuori luogo né le ipocrisie della supposta controinformazione di stato, della mistica correlata dei mezzi di comunicazione/distruzione di massa. Il loro voyeurismo contagioso, la futura pornografizzazione e decodificazione (capitalistiche) del mondo.

Di sicuro, in Giappone il ’68 era iniziato almeno vent’anni prima. La Federazione Nazionale degli Organismi Studenteschi Universitari (ovvero lo Zengakuren) nasce nel 1947, per protesta contro il triplicare delle spese universitarie (da noi avvenne nel ’94 con Berlusconi; la sinistra, prima di accodarsi, fece finta di protestare e la Pantera figlia di papà ci dormì sopra). E diventa pericolosa con la guerra di Corea, il Trattato nippo-americano del ’52 e quello del ’60. Contesta il riarmo del paese, la spersonalizzazione occidentalista, i fascisti al potere (il riciclato primo ministro Kichi, criminale di guerra, poi costretto a dimettersi), certi modelli di vita già global (di cui però il Giappone farà una geniale risemantizzazione).

A differenza che in Occidente, il movimento intende inscriversi nel corpo, come da tradizione giapponese, ma le parole e gli slogan, come in tutto il resto del mondo, finiranno per avere la meglio. Mishima vi costruirà una meravigliosa macchina teorica ed estetica già debordiana (rilevabile, in maniera esplicita, nei testi teatrali Madame De Sade, 1965, e Il mio amico Hitler, 1969). Contro la schizofrenica, e pienamente occidentale, scissione tra passione e ideologia, parole e vita, lo scrittore restaurerà drammaticamente il logos dentro il corpo, con il suicidio, prima virtuale (Yukoko, racconto e film, 1966), poi reale e spettacolare, davanti alle telecamere, nel ’70. Body art d’inarrivabile realismo. Prima di essa, a suggello di cotanta estetizzazione (che per paradosso reagisce contro una finzione di esistenza, quindi un’estetica), una tetralogia letteraria altrettanto disilludente (Il mare della fertilità, 1965-70), con altrettante divagazioni su sesso, voyeurismo e circolarità (false).

Anche Wakamatsu insiste sul suicidio (dei personaggi). Shinjuku Mad apre con una serie di cadaveri. Il protagonista di Storia di amanti moderni: la stagione del terrore si farà esplodere, come un moderno kamikaze islamico, all’aeroporto numero uno di Tokyo, da cui si partiva per la guerra in Vietnam. Il gruppo di Sex Jack, tra scazzi, sospetti e delazioni, si uccide neanche tanto inconsciamente. I tre amici di Violenza senza causa, in maniera diversa l’uno dall’altro, compiono l’harakiri, sperando così di raggiungere l’«ultima terra» Abashiri, simbolo estremo di un’utopia fuori terra (come la «Zona» dei personaggi di Sex Jack e la Shangri-La di uno dei pseudo-combattenti di Shinjuku Mad). In Italia, in un film post-’70 sui drogati e in super8, si chiamerà Bambulé (1978).

Ma è soprattutto la rivolta che sembra essere «suicidata». È violenza senza scopo, come nel film omonimo, una sorta di Ecce bombo (1978) hard. Tre ragazzi di Aomori, due studenti e un operaio in trasferta a Tokyo, si ritengono «nati sotto il segno della sfortuna» perché non hanno «auto, né casa, né donna». Snobbano le lotte studentesche, considerate roba da ricchi, e pensano solo al sesso. Sentono un potere che li opprime, ma non sanno dargli forma. Sbirciano così da un buco nella parete una coppia copulante (e lo schermo si trasforma in un piccolissimo squarcio colorato dentro un buio più che metaforico), consumano pornografia, si danno allo stupro. Tutto all’insegna di una noia già devitalizzata. Che è la stessa del gruppo di Sex Jack: combattenti depressi che, in un appartamento con vista «sul nulla» (lo sviluppo made in Japan), si danno a un estenuante tour de force sessuale, già in stile Ai no korrida, al grido(lino) di «Vinceremo! Vinceremo di certo!».

Da par suo, pure il pericoloso militante di Storia di amanti moderni: la stagione del terrore, sotto osservazione di due agenti che sognano di arrestarlo a fini carrieristici, non fa altro con due ragazze che lo accudiscono, gli cucinano, lo trattano come il capetto che è. «Ma che vita è questa? Mangiare, dormire, scopare!». Forse gli agenti desidererebbero lo stesso per loro. Ficcati in un caseggiato popolare squallidissimo e anonimo con finestra su cortile analogo (dove alloggia il terrorista), da cui di nuovo affiorano pertugi di erotismo passivo. Ma quello che i poliziotti conservatori vedono (e sentono) è la realtà o solo il loro limitato punto di vista? Difatti, nel finale, dopo l’immagine delle bandiere giapponese e USA che si toccano (ma sono due fotogrammi differenti) e la sovrimpressione del trio erotico in azione, i due rinunciano alla missione e il militante da passivo diventa attivo.

Qui Wakamatsu, nel servirsi alla grande dell’ambiguità tipica del mezzo cinematografico, si fa ancora più spietato. Ni con dios ni con el diablo, si sbizzarrisce nel restaurare la conservazione senza aderirvi. In Shinjuku Mad, il padre del ragazzo ucciso perché «traditore», contadino contestatore d’altri tempi che scoprirà il vuoto dei giovani e quanto la loro pseudo-rivoluzione sia inscindibile dall’alienato paesaggio urbano, arriverà a questa conclusione: «La colpa è mia, se finora non sono stato capace di fare nulla». Tale padre… Eppure il più umano, simpatico e senziente dentro un universo apocalittico di uomini macchine.

Leonardo Persia

 

Gendai sei hanzai zekkyo hen: riyu naki boko (Violenza senza causa)
Regia: Koji Wakamatsu (Giappone/1969)

Gendai kosyokuden: teroru no kisetsu (Storia di amanti moderni: la stagione del terrore)
Regia: Koji Wakamatsu (Giappone/1969)

Seizoku (Sex Jack)
Regia: Koji Wakamatsu (Giappone/1970)

Shinjuku maddo (Shinjuku Mad)
Regia: Koji Wakamatsu (Giappone/1970)

 

 



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