Paul Thomas Anderson è tornato. L’enfant prodige del cinema statunitense (è così azzardato un parallelismo con il coetaneo Harmony Korine?), assistente alla regia dell’intera ultima produzione di un Maestro come Robert Altman, esordì al lungometraggio a soli 26 anni con lo straordinario ed atipico noir Hard Eight (Sidney, 1996), ed infilò, in breve, la formidabile accoppiata Booghie Nights (1997) – Magnolia (1999). Il film successivo fu l’ancor oggi inesplicabile Punch-Drunk Love (2002). Nel 2007 venne il turno del capolavoro There Will Be Blood (Il petroliere), che chiarì, a chi ancora non l’avesse compreso, che PTA punta al bersaglio grosso: quello di un cinema capace di confrontarsi con i classici, con i mostri sacri, come Kubrick o Stroheim.
Alla 69. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia PTA porta in anteprima (e in concorso) The Master.
Questa l’accoglienza della critica.
The Master di Paul Thomas Anderson (USA/2012, 137′)
con: Philip Seymour Hoffman, Joaquin Phoenix, Amy Adams
Di ritorno dalla Seconda guerra mondiale, dopo aver assistito a tanti orrori, Lancaster Dodd, un intellettuale carismatico, crea un’organizzazione basata sulla fede, nel tentativo di dare un senso alla sua vita. Egli diventa perciò noto come “The Master”. Il suo braccio destro, Freddie, un ex vagabondo solitario, prima s’innamora di Mary Sue, la figlia di Lancaster, ed in seguito comincia a mettere in discussione sia il sistema di credenze che il Maestro stesso, mentre l’organizzazione continua a crescere e a guadagnare un seguito sempre più numeroso di devoti fedeli.
Marco Giusti per Dagospia: «Lontano. Sul concetto di lontananza, "away", e’ costruito il miglior film della Mostra visto finora, il molto atteso e chiacchierato "The Master", complessa biografia che Paul Thomas Anderson dedica alle sette americane degli anni 50 e al fondatore di Scientology Ron L. Hubbard. Lontano dalla famiglia, dal proprio paese, dall’amore, dal sesso, dalla guerra, ma anche lontani da se stessi. Un non riuscire a ritrovarsi, a tornare a casa che lo psicopatico Freddy, interpretato da un Joaquin Phoenix che si e’ totalmente reinventato, anche fisicamente, sente sul proprio corpo martoriato e schizzato, un fascio di muscoli e nervi sempre pronti a esplodere, e che si placa solo con l’amicizia, anzi l’amore, di quello che si presenta come il suo Master, cioe’ la guida spirituale, il guaritore e capo della setta, Lancaster Dodd, filosofo e medico cialtrone interpretato alla perfezione da Philip Seymour Hoffman. Ma Freddy rimane alla fine lontano anche da lui. Corpo impossibile che riesce a avvicinarsi solo alla donna di sabbia che ha costruito in riva al mare in guerra, e corpo in lotta con se stesso che riuscira’ a tornare troppo tardi dal suo amore Doris, che aveva abbandonato anni prima, per scoprire che lei e’ partita, si e’ sposata con un certo Jim Day, ha fatto due figli ed e’ diventata cosi’ Doris Day, proprio come la star del cinema.»
Carlo Valeri per Sentieri Selvaggi: «Inizia infatti a configurarsi un pericoloso distacco dall’emozione del cinema in quest’ultima opera di Paul Thomas Anderson, una consapevolezza autoriale che incatena The Master a un’impronta concettuale in cui le immagini e il loro mondo finiscono col diventare elementi superflui rispetto all’Idea. Ne viene fuori un’opera più spossante che complessa, verbosa, claustrofobica, il cui fascino maggiore risiede soprattutto nella dimensione extradiegetica di un training psicoattoriale finalizzato a una riabilitazione umanizzata di Joaquin Phoenix. Qui si gioca una partita certamente extradiegetica che è l’elemento più interessante del film di Anderson. Tutta la storia di The Master sembra infatti la rappresentazione di un processo curativo finalizzato a recuperare il corpo e l’anima di Phoenix dalle macerie semi-autobiografiche raccontate nell’ottimo I’m Still Here di Casey Affleck. In 135’ il film di Paul Thomas Anderson racconta la fatica di una ricollocazione corporea e mentale del personaggio Phoenix che – in aperto contrasto con la parola del guru interpretato da Philip Seymour Hoffman – assume le deformazioni fisiche di un umanoide in attesa di rieducazione alla vita (e al cinema). Forse nella figura ambigua (e filosoficamente fragilissima) di Seymour Hoffman, chiaramente ispirata, nonostante le smentite pubbliche, al leader di Scientology Ron Hubbard, il regista americano parla anche un po’ di se stesso e del suo cinema, costantemente oscillante tra talento, smisurata ambizione e confusione contenutistica».
Fabio Ferzetti per Il Messaggero: «Un film grandioso, per impianto e ambizioni, che riscrive la storia degli Usa nel dopoguerra attraverso due personaggi ignobili e memorabili, visti come due facce di una sola medaglia.Un’avventura epica e insieme intima che guarda alla genesi di una setta concentrandosi sui protagonisti e sui loro rapporti più viscerali anziché sulle conseguenze sociali del loro agire, come faceva già l’ultimo film di Paul Thomas Anderson, il bellissimo Il petroliere. Una prova magistrale che scoperchia zone mai esplorate dalla macchina da presa. Anche grazie a due attori giganteschi e capaci di tutto come Philip Seymour Hoffman, il maestro del titolo, The Master, e il suo allievo, cavia, seguace, vittima, figlioccio, Joaquin Phoenix. Un disadattato reduce di guerra a cui è dedicato il lungo prologo, che parte dalle truppe americane arenate sulle coste asiatiche alla fine del conflitto e col suo mix di smarrimento, disperazione, violenza, follia, sembra quasi prolungare La sottile linea rossa di Malick».
Peter Bradshaw per The Guardian: «It has the feel of something by Steinbeck or DeLillo […] It has a stunning lead performance from Joaquin Phoenix, a performance quite different from and in advance of anything he has given us before, an achievement that puts him on a par with the young Pacino or De Niro… The movie takes its own place in what Michel Foucault called the History of Unreason – the various forms of madness that are not included in the official history of the western enlightenment. These are people who sign up to crazy worldviews, and eagerly board Dodd’s wandering ship of fools, and yet their emotional lives are real – and not foolish. It is a movie that may alienate and exasperate some, but its audacity, its formal daring and Joaquin Phoenix’s performance, make it simply unmissable».
Camille Brunel per Independencia: «"Are you lying ? – No. – Are you a liar ? – Yes." Un gourou hypnotiseur, Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), assaille de questions l’ancien Marines Freddie Quell, rongé par la douleur de sa dernière rupture (Joaquin Phoenix, quoi). Le maître du titre, n’en déplaise à Phoenix qui vampirise le film, ce serait plutôt Philip Seymour Hoffman. Celui qui apprivoise Phoenix, sauvage, enragé, animal.
A première vue, le film s’en tient au récit de cette rencontre entre une bête perdue et son nouveau maître, qu’on appelait gourou dans les films précédents de PTA – Tom Cruise dans Magnolia, Paul Dano dans There Will Be Blood. Réincarnation par Hoffman d’un rôle précis, dans une version toutefois moins flamboyante que précédemment. Pas de numéro de bravoure, moins de séquences purement musicales, et un sujet moins fort que d’habitude, doublé d’une impression de déjà-vu. Pour la première fois, Anderson retourne sur ses terres. C’est le principe de The Master. Retourner, revenir, se réincarner : le couple qui recueille Freddie Quell y croit dur comme fer. Ces théories qui fondent la secte dirigée par Lancaster Dodd ne sont cependant pas primordiales. L’histoire traverse les théories du fondateur de la scientologie, l’écrivain de polars Ron Hubbard, pour se diriger vers autre chose. Chaque scène d’initiation est vécue souterrainement par le personnage de Phoenix, recyclée en manière d’apaiser la souffrance qui l’anime. Le fils de Dodd en a d’ailleurs l’intuition, qui suggère à son père que son protégé ne se préoccupe peut-être pas tant que ça de leur Cause. Le scénario apparent ne sert qu’à recouvrir cette histoire-là, plus discrète, contenue toute entière dans les yeux de Phoenix/Quell jusqu’à ce qu’il se sauve à moto et retourne exhumer son ancienne vie, voir si elle bouge encore».
Richard Corliss per Time: «This is Anderson’s sixth feature; except for the Adam Sandler project Punch-Drunk Love, each of the writer-director’s films examines father-son or mentor-acolyte relationships. Philip Baker Hall schooled John C. Reilly as a Vegas gambler in Hard Eight; porn auteur Burt Reynolds promoted well-hung amateur Mark Wahlberg in Boogie Nights; TV mogul Jason Robards tried reconnecting with his sex-guru son Tom Cruise in Magnolia; and oil baron Daniel Day-Lewis battled preacher Paul Dano in There Will Be Blood. Nothing wrong with filmmakers pursuing themes throughout their works; it’s a mark of personal commitment in an industry that distrusts individual identity.
Serge Kaganski per Les inrocks.com: «Je ne fais pas partie du fan club de PTA, et j’appartiens à la petite minorité de critiques qui ne s’est pas extasiée sur There Will Be Blood. Eh bien rebelote avec The Master, tout est normal. Evidemment, Anderson est loin d’être un mauvais, il reste un impressionnant directeur d’acteurs et un excellent DJ axant encore sa BO autour des dissonances cools de Jonny Greenwood. Bien que passé des débuts de l’ère du pétrole au portrait d’un gourou chef de secte, The Master fonctionne selon les mêmes recettes que There Will Be Blood: premier quart d’heure sans dialogue, récit de puissance et de domination, femmes reléguées au second plan, acteurs en configuration olympique pour les oscars: voir Seymour Hoffman avec la tête d’Heminghway en maître manipulateur, ou un Joaquin amaigri et affuté, tordant la lèvre pour faire le demi-dingue, cela ressemble presque à un spectacle sportif. Mais c’est précisément ce côté démonstration de force (tant dans la fiction que dans sa fabrication) qui assèche un peu le film, fait de PTA un cinéaste volontariste, et même quelque peu besogneux dans sa façon de vouloir montrer à chaque photogramme qu’il est un auteur singulier. The Master est impressionnant mais trop surmaîtrisé pour vraiment saisir et toucher».
Gabe Klinger per Cinema Scope: «There Will Be Blood announced the end of a protracted calling-card phase in Anderson’s career, and The Master, an equally impressive achievement, confirms that his intent is a serious one. Like Stroheim with Greed (1924) or Vidor with The Crowd (1928), his cinema has entered its visionary stage – and boy, let’s hope it stays in it. Anderson may still get called out for his narrative imperfections (see Adam Nayman’s summary of PTA’s faults and virtues in Cinema Scope 50), but there isn’t a cinephile on the planet – at least none in my own midst – who isn’t salivating to see what he does next… Anderson’s continued reliance on ‘show-stoppers’ (per Nayman) to advance the drama remains mildly troubling. To his credit, Anderson has at least come to the conclusion this time around that he doesn’t need to go out with fire and brimstone – no milkshakes drunk, no frogs… Lastly, it might be worthwhile to explore some of The Master’s thematic divergences from There Will Be Blood. If the earlier film suggests the corrosive power of industry (oil), let me propose an opposite formulation for The Master: the corrosive industry of power (religion)».
Fonti: Dagospia | Sentieri Selvaggi | Il Messaggero | The Guardian | Independencia | Time | Les inrocks.com | Cinema Scope
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