Voichita e Alina sono legate da un rapporto che affonda le sue profonde radici al tempo degli anni trascorsi insieme in orfanotrofio, un luogo in cui in cui un forte legame può significare sopravvivenza anche di fronte agli abusi che – si intuisce da qualche fuggevole allusione – vi sono stati commessi anche da persone esterne. Da tempo, però, le loro strade si sono divise: Alina si è trasferita in Germania, dove lavora come cameriera, e Voichita è adepta di una comunità religiosa ortodossa che vive in un convento isolato all’insegna della povertà totale: cipolle come pasto, niente acqua corrente, niente elettricità.
Alina visita Voichita, la sua intenzione è quella di portarla con sé in Germania per riannodare quel legame che, pur indissolubile, ha perso in consuetudine. Il loro primo incontro mette in evidenza attraverso pochissime parole la loro unione, che in passato è stata certamente fatta anche di intimità fisica e di amore, un amore che Voichita ora rivolge altrove, chissà quanto per sopravvivenza anche in questo caso. Nel convento, si dedica con rigore alle attività quotidiane e all’obbedienza cieca al padre che lo dirige, un uomo che appare molto più vecchio di quanto sia in realtà e che ha trovato la sua vocazione in seguito all’incontro con un angelo nella fabbrica dove lavorava, unico elemento personale che condivide con la comunità, e alla madre superiora. Nel rigoroso ambiente, dettato da regole ferree di obbedienza e sottomissione, Alina si rende conto di avere perso Voichita e la sua intera esistenza vacilla. Ovvio che i suoi atti di ribellione e disperazione, in quel luogo, vengano visti come palesi sintomi di possessione e che l’unica soluzione percorribile agli occhi di tutti sia quella di un esorcismo che la liberi.
Cristian Mungiu, a cinque anni da 4 luni, 3 saptamâni si 2 zile – 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, che lo aveva imposto all’attenzione del mondo intero, si dedica con lo stesso rigore dimostrato nell’opera precedente a una storia complessa che lascia un retrogusto amaro e molti pensieri per lungo tempo dopo la visione. E, come allora, posa il suo occhio su una situazione specifica per raccontare molto, molto di più. Racconto sul concetto di fede in tutti i suoi sensi, inclusi quelli malintesi, su superstizione, sulla necessità anch’essa spesso malintesa di aspirare a qualcosa di “alto”, sui meccanismi che l’animo umano mette in atto per la sua stessa sopravvivenza e, infine, su costruzione della propria identità, repressione sessuale e amore, Oltre le colline ricostruisce una storia reale, con una sceneggiatura rigorosa e perfetta in cui ogni parola è una stilettata.
L’ispirazione nasce da un fatto di cronaca risalente al 2005 e raccontato nel libro “Spovedanie la Tanacu” – “Deadly Confessions” scritto da Tatiana Niculescu Bran (ne esistono anche due versioni teatrali), già direttrice dell’ufficio rumeno della BBC, che narrava la storia di una novizia, ospite di un convento nel Nord Est della Romania, convinta di sentire voci diaboliche nella sua testa. Il prete la convinse della necessità di sottoporsi a un esorcismo che la liberasse. Legata per giorni a una croce e imbavagliata per impedirle di urlare, venne abbandonata in una stanza buia dove morì per soffocamento e disidratazione dopo tre giorni.
Mungiu mette in scena la vicenda con un approccio documentaristico, nella sua costruzione, ma fedelissimo al suo stile fatto di lunghe riprese in piano sequenza e un uso più che minimale del montaggio, niente musica, niente movimenti di camera. Ma non c’è mai pauperismo nel suo cinema, come chi ha visto il suo film precedente sa bene. Al contrario c’è grande ricchezza che viene sia dalla profondità del suo sguardo sui temi e dal suo desiderio di penetrare nella situazione non limitandosi a osservarla con distanza, sia visuale, con inquadrature che a tratti appaiono come dipinti. Ma la profondità dello sguardo e la sua ampiezza non sono i soli punti in comune con il film precedente: anche qui si racconta di due donne, una delle quali in posizione di maggiore debolezza rispetto all’altra, con la ribellione prima e il sacrificio poi di Alina a scoperchiare la mancanza di empatia che si spinge alla suprema crudeltà da parte di una società che si estende molto al di fuori delle mura del convento. Assente invece il cinismo esplicito presente in un personaggio del film precedente: qui, infatti, di buoni o cattivi non ce ne sono e Voichita appare convinta della sua scelta ed è mossa da un intento genuino nel voler coinvolgere l’amica nella sua vita nel convento.
E non sembri un racconto risalente a anni oscuri e distanti: come la storia vera cui si ispira, il film si svolge ai giorni nostri, come i rari momenti trascorsi dai personaggi al di fuori del convento lasciano mostrare, in un Paese in cui – è lo stesso regista a dichiararlo – ci sono più chiese che ospedali come conseguenza della libertà ritrovata dopo la caduta del feroce dittatore Ceauşescu.
E non è la religione l’obiettivo critico di Mungiu, bensì il motivo per cui la gente talvolta vi si avvicina. Soprattutto osserva come la religione, nelle sue derive o meno, sia ancora tanto radicata nella nostra società con la colpevole connivenza della politica, che non esita a abusarne per i suoi ambigui motivi e per mantenere un controllo sui popoli ottenendone in cambio consensi e quindi potere e ricchezza. Ma tratta anche di come la fede e il suo chiedere cieca obbedienza, possa servire a trasformare le persone in esseri acritici in cambio di un conforto al loro dolore, qualunque esso sia.
Ma Mungiu è un autore di grande sottigliezza, è per questo che i personaggi che popolano il convento sono cortesi e inclini alla comprensione, è per questo, sicuramente, che né la madre superiora né soprattuto il padre che sovrintendono alla comunità sono descritti come personaggi negativi. Al contrario, sono in buona fede nel sottomettersi a quella che loro intendono come una servitù a un essere superiore. Al loro confronto, le persone della società civile, come si nota in una scena ambientata in un ospedale al momento del primo ricovero di Alina, non sono capaci di più calore e empatia. E se per i religiosi il comportamento di Alina è sinonimo di una possessione da curare con il metodo della estirpazione del male attraverso un esorcismo, per i medici è il sintomo di un male da liquidare in una fugace diagnosi e da estirpare infine con robuste dosi di farmaci.
Difficile trovare oggi molti altri esempi di cinema impegnato e tanto sottile al pari di quello di Cristian Mungiu. Se Oltre le colline è un film profondamente politico e critico, lo si deve alla scelta del suo autore di non osservare con distanza eventi e personaggi ma di penetrare nella situazione, confondendosi come un ospite invisibile nella dinamica, accompagnando lo spettatore nella sua stessa posizione e non permettendogli per un solo secondo un’osservazione distaccata e acritica.
Potente e appassionante, con un finale che nella sua semplicità fatta di poche parole e immagini è più significativo e feroce di pagine e pagine di sceneggiatura, il film di Mungiu non può e non vuole essere una visione facile, ma le scelte del regista e le interpretazioni tutte, esempio anch’esse di rara sottigliezza e ulteriore dimostrazione della bravura degli attori del cinema rumeno, la rendono mai meno che appassionante. Oltre le colline non è solo la dimostrazione della vitalità di un cinema potente, personale e profondo, ma anche di un cinema che è già un classico nel momento stesso in cui viene realizzato. E senza volerlo essere. Capolavoro.
Il film è stato premiato a Cannes nel 2012 per la sceneggiatura e per le interpretazioni di Cosmina Stratan e Cristina Flutur, che richiedono la visione in lingua originale sottotitolata.
Roberto Rippa
După dealuri
(titolo italiano: Oltre le colline / titolo internazionale: Beyond the Hills. Romania-Francia-Belgio, 2012)
Regia, sceneggiatura, produzione: Cristian Mungiu
Soggetto: ispirato a “Spovedanie la Tanacu” di Tatiana Niculescu Bran
Fotografia: Oleg Mutu
Montaggio: Mircea Olteanu
Scenografie: Calin Papura, Mihaela Poenaru
Suono: Cristinel Sirli
Costumi: Dana Paparuz
Interpreti principali: Cosmina Stratan (Voichita), Cristina Flutur (Alina), Valeriu Andriuta (Padre), Dana Tapalaga (Madre superiora), Catalina Harabagiu (Sorella Antonia), Gina Tandura (Sorella Iustina), Vica Agache (Sorella Elisabeta), Nora Covali (Sorella Pahomia), Dionisie Victu, Ionut Ghinea, Liliana Mocanu (Madre Elena), Doru Ana (Padre Nusu)
151′
probabilmente, una delle migliori recensioni di questo film, e ne ho letto tante, di vari paesi
grazie soprattutto per averci lasciato un commento d’apprezzamento. di solito la possibilità di commentare sui siti web si trasforma in una palestra di massacri all’arma bianca!!!! :)
Grazie davvero, ci fa molto piacere saperlo.