Fiumi di pagine potrebbero essere scritti su un’opera che ha l’ambizione di portare alla luce, con la stessa profondità d’indagine dei più grandi autori della tradizione del romanzo russo, il senso più autentico dell’umanità (ossia di ciò che è costitutivo dell’uomo in quanto tale), che in ogni momento si scontra con la vuotezza di un’esistenza quotidiana sempre uguale a sé stessa, priva di sentimenti, affetti, ambizioni, volontà di cambiamento. L’uomo spesso rinuncia ad ogni tratto caratteristico dell’umanità che gli sarebbe propria, senza assumersi la responsabilità della scelta che sta compiendo. Scegliere di non vivere, o meglio, scegliere di non vivere da uomo è quanto di più dis-umano ci si possa immaginare, ma, senza accorgercene, completamente assorbiti dal “sistema”, in cui ci troviamo a dover continuare la nostra esistenza, ci dimentichiamo di una scelta che fa capo solo a noi stessi. La vicenda del protagonista di Vivere si pone sin da subito su un piano narrativo universale ed esemplare, rivelando l’ampiezza e la complessità del campo di indagine dell’Autore.
Kurosawa gira Vivere nel 1952, poco dopo l’impresa, ben riuscita, della trasposizione cinematografica de L’idiota di Dostoevskij, che apre il grande ciclo dei film incentrati sulla condizione umana, tra cui annoveriamo anche Vivere e I sette samurai. L’umanità negata del protagonista di questo capolavoro cinematografico, per 30 lunghi anni sepolta sotto un mucchio di scartoffie accumulate sulla sua scrivania di capoufficio pubblico, emerge con una violenza commovente nel momento in cui scopre di non avere ancora molto tempo da vivere (un cancro allo stomaco lo porterà alla morte in pochi mesi). Riappropriarsi di tutto ciò che in quel tempo si era lasciato passare davanti è ormai impossibile, e questa impossibilità di recuperare un’esistenza autentica dopo tanti anni di non-vita è portata in scena con una tensione lirica davvero straordinaria da Kurosawa. Pensiamo, ad esempio, alla splendida scena in cui Watanabe (il protagonista), nella magistrale interpretazione di Takashi Shimura, canta una vecchia canzone (dal titolo “Gondola no Uta”, tema dominante della colonna sonora dell’intero film), ripreso in primissimo piano con le lacrime agli occhi, e la cinepresa passa poi ad inquadrare l’intera sala, dove tutti i presenti hanno smesso improvvisamente di ballare, rimanendo immobili, raggelati. L’amara consapevolezza di avere trascurato per tanto tempo ciò che di realmente umano vi è nel nostro breve soggiorno mondano, traspare in tutta la sua dolorosa grandezza da quelle parole pronunciate con voce grave e rotta da un pianto silenzioso. In seguito Watanabe, colpito da un’illuminazione resa ancora attraverso un efficacissimo primo piano capisce che una sola cosa può davvero riscattarlo: aiutare un gruppo di donne di un quartiere popolare che versa nella più completa miseria, la cui richiesta di aiuto era stata respinta dall’ufficio di cui il protagonista è a capo, in quanto “non di competenza” di quest’ultimo. Gli altri uffici del comune avevano fatto lo stesso. Emerge così, con una folgorazione momentanea, la statura “eroica” del protagonista, che si batte con assoluta dedizione per la costruzione di un parco giochi per bambini, superando tutti gli ostacoli burocratici posti dall’amministrazione comunale alla sua realizzazione.
La sequenza finale è un piccolo capolavoro nel capolavoro: con un vertiginoso flash-forward siamo portati nel mezzo della celebrazione del funerale di Watanabe. Dopo la focalizzazione quasi esclusiva sulla vicenda esistenziale individuale del protagonista, ci troviamo in un contesto “corale”, in cui Kurosawa, con grande maestria, ci mostra in tutta la sua crudezza, l’egoismo indifferente e cinico che permea ogni tipo di relazione degli uomini tra loro. Tutti i componenti dell’amministrazione comunale tentano di offuscare gli indubbi meriti del protagonista, in una palese e mielosa adulazione del rappresentante del potere costituito (il sindaco della cittadina, che si era opposto in modo sprezzante alle richieste di Watanabe), contrariamente a quanto era avvenuto in Rashômon, in cui ciascuno dei personaggi tendeva all’esaltazione di sé. Ognuno è preoccupato solamente di conservare la propria piccola parte di potere, a costo di privarsi del tutto della dignità personale, quasi terrorizzato all’idea che una persona abbia potuto agire secondo una logica completamente differente e “sovversiva”. L’umano si nega, ancora una volta, con una precisione quasi scientifica e maniacale nel sopprimere ogni traccia di compassione, o di qualsiasi altro sentimento disinteressato verso l’altro, che prescinda dall’attaccamento materiale alla semplice possibilità di mantenere la propria condizione relativamente sicura e “privilegiata”. Ma in vino veritas: i compagni ubriachi, dopo una lunga discussione, riconoscono finalmente i meriti di Watanabe, e si lasciano andare a un’ipocrita esaltazione della sua statura morale, promettendosi a vicenda, da allora in avanti, di “cambiare il sistema”. Tuttavia, nella scena finale, di questo momentaneo rivolgimento interiore non c’è più alcuna traccia. La stanza d’ufficio dove lavorano i compagni del defunto appare pervasa da un’atmosfera soffocante, sommersa da pile di fogli inutili, e si ripete la stessa scena che avevamo visto all’inizio del film: il nuovo capoufficio licenzia con fredda indifferenza una donna venuta a segnalare un danno alle fognature. Uno degli impiegati si alza, fissa con disprezzo i compagni che lo guardano senza capire, ma gli manca il coraggio di reagire, soffoca la rabbia in un singhiozzo: la macchina da presa segue il suo volto scomparire lentamente, ancora una volta, dietro una pila di scartoffie.
Sapientemente strutturato e mai monotono, grazie a un continuo slittamento dei piani temporali attraverso l’inserzione di flashback e flash forward, Vivere riesce a suscitare la partecipazione emotiva dello spettatore senza perdersi nel patetismo deprimente e sentimentale di un film sulla morte. Possiamo dire con certezza, al contrario, che il quattordicesimo film di Kurosawa, ormai giunto nella fase matura della sua carriera di regista, ha la dirompente forza di denunciare la miseria della condizione umana, dovuta non tanto (o meglio, non solo) alla deprivazione materiale, quanto all’annullamento di ogni tensione affettivo-morale verso la realtà che ci circonda. Qui non vi è il finale positivo, edificante di Rashômon: la volontà di cambiamento della pratica di inazione quotidiana è soffocata per l’ennesima volta dalla ristrettezza morale dei burocrati, che porta alla perpetua conservazione dello status quo.
Lorenzo Livraghi
Ikiru
Titolo italiano: Vivere
Regia, montaggio: Akira Kurosawa
Sceneggiatura: Shinobu Hashimoto, Hideo Oguni e Akira Kurosawa
Fotografia: Asakazu Nakai
Scenografia: So Matsuyama
Musica: Fumio Hayasaka
Interpreti: Takashi Shimura, Nobuo Kaneko, Kyoko Seki, Makoto Kobori, Kumeko Urane, Yoshie Minami, Miki Odagiri, Kamatari Fujiwara, Minosuke Yamada, Haruo Tanaka, Bozuken Hidari, Shinichi Hinori, Nobuo Nakamura, Masao Shimizu, Ko Kimura, Atsushi Watanabe, Yunosuke Ito, Yatsuo Tanami, Fuyuki Murakami, Seiji Miyaguchi, Daisuke Kato, Kin Sugai Fumiko Homma, Eiko Miyoshi, Ichiro Chiba, Kazuo Abe
Produzione: Shojiro Motoki
Distribuzione: Toho
Paese: Giappone
Anno: 1952
Durata: 143′
ciao, ho appena avuto il blu-ray giapponese di questo film, e nella versione originale la scena nell’ufficio con l’impiegato sepolto dai libri non è l’ultima, bensì prosegue per 2 minuti con watanabe.. posso sapere la fonte da cui l’hai visto? DVD? doppiato on italiano??
grazie molte!