«La stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia»
Ennio Flaiano
Ammoniva Robert Musil nel marzo 1937: «Chi tenti oggi l’impresa di parlare della stupidità corre il rischio di rimetterci le penne in tanti sensi. La cosa potrebbe interpretarsi come arroganza o addirittura come strappo al progresso contemporaneo. Anni fa io stesso scrissi: “Se la stupidità non assomigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”. Correva l’anno 1931 e nessuno oserà mettere in dubbio che da allora il mondo non abbia visto progressi e miglioramenti! Così poco per volta la questione: che cos’è veramente la stupidità? è diventata ineludibile» (Robert Musil, Sulla stupidità, 1937). Dunque parlare della stupidità è un esercizio dannatamente rischioso perché mette in cattiva luce colui che tenti l’impresa, peraltro già persa in partenza, di definire non tanto un’alterità del proprio tempo, quanto il «prevalente cretino contemporaneo» (nella geniale definizione di Fruttero & Lucentini), così in soprannumero da rappresentare, secondo l’intuizione di Leo Longanesi, una vera e propria «forza storica»: «Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica». Ma non riesco ad accontentarmi della posizione snob di colui che volta la testa dall’altra parte di fronte a un film, come Sole a catinelle, che ha affollato le sale cinematografico con la propria pervasiva presenza (il 31 ottobre 2013 uscì in 1300 copie; cifra mai vista, ancora più poderosa se si tiene conto del fatto che in tutta Italia gli schermi – schermi, non sale –, erano 3800 nel 2012), riscuotendo un successo commerciale sbalorditivo. Ad oggi una cifra prossima ai 52 milioni di euro, il secondo incasso italiano di sempre – al netto del tasso di inflazione – subito dietro ai 65 milioni di Avatar; il primo incasso di sempre per un film italiano, seguito dai 43 milioni di Che bella giornata – il precedente titolo della saga Zalone (sommando le cifre dei tre film della serie arriviamo al totale iperbolico di 110 milioni). Cogliendo la certezza di passare per stupido, ma consapevole del fatto d’essere tutt’altro che solo, ho pensato fosse il caso di condividere considerazioni approssimative su di un’operazione cinematografica che, nella sua apparente innocente semplicità e popolarità linguistica, camuffata da favoletta con al centro un protagonista “scemo del villaggio”, cela una spietata e cinica visione del proprio pubblico e del proprio tempo.
Luca Medici, cioè l’uomo che sta dietro alla maschera di Checco Zalone, nonché autore della sceneggiatura di Sole a catinelle insieme al regista Gennaro Nunziante, così sintetizza la trama del film, e le intenzioni degli autori, in un’intervista concessa a Malcolm Pagani per Il Fatto Quotidiano: «Papà sfigato, bugiardo, pieno di debiti, inseguito dal mito di Berlusconi come da Equitalia, promette al figlio una vacanza da re in cambio di una superpagella scolastica. La pagella arriva, è piena di 10 e il padre prova invano a corrompere la maestra. Le spiega che il bambino è un pezzo di merda, un mascalzone, prova a fargli abbassare la media e non riuscendoci, in uno slancio di ottimismo contro la crisi che ci attanaglia, carica la macchina, fa salire il ragazzino e punta verso il Molise. Il viaggio di piacere si rivelerà sorprendente. […] La storia è molto semplice. Il mio personaggio è un vero bastardo. Potevamo facilmente scadere nella retorica e nel moralismo, disegnare come da copione i poveri buoni e i ricchi cattivi. Abbiamo preferito mostrare un disgraziato che si mostra più stronzo dei ricchi, ambisce solo ad assomigliargli e alla fine, diventa peggio di loro» (intervista del 28 ottobre 2013).
Checco è un coatto sprovvisto di cultura che fa dell’uso disinvolto della lingua italiana il proprio marchio di fabbrica (negli anni ’80 la maschera del terrunciello di Abbattantuono giocava con i medesimi stereotipi, poi venne il Frassica televisivo: «Apriti, Cesare!»), uno “scemo del villaggio” incapace di comprendere in alcun modo quello che lo circonda, teso unicamente al raggiungimento di obiettivi materiali in una incessante rincorsa della propria realizzazione edonistica che è solo economica. Il denaro è l’unico metro attraverso il quale misurare la propria e le altrui esistenze in una famelica corsa verso un irraggiungibile appagamento che si concretizza nell’accumulazione di roba, di oggetti privi di una reale funzione. L’appartamento di Checco è un campionario di elettrodomestici domotizzati affastellati attraverso crediti a tassi mostruosi concessi da truffaldine società finanziarie; tale è la familiarità con i debiti facili che il cane di casa si chiama Taeg. C’è una scena che sintetizza mirabilmente il Checco pensiero: a bordo di uno yacht esorta il figlioletto a non credere che quella sia la felicità, lo ammonisce a non illudersi che il lusso sopra al quale solcano il mare sia davvero una cosa così importante, perché, rivela al bimbo, la vera felicità te la può dare solo quell’altro yacht, ormeggiato a poca distanza, molto più sfarzoso e costoso. Sole a catinelle è scritto magistralmente, con un’attenzione scientifica all’effetto comico e all’equilibrio delle parti e risponde proprio all’etica contenuta nella scena menzionata, che è sintesi perfetta di una visione del mondo pragmatica e spietata, nel suo realismo cinico e beffardo, che ricorda molto del demenziale politically incorrect di Sacha Baron Cohen (The Dictator, Brüno, ma soprattutto Borat), ma pure di un’altra maschera della medietas come Fantozzi, o le varie figure desolanti di un film fondamentale, nella descrizione della pancia del paese, come I mostri di Dino Risi (1963). Una logica che si struttura come satira feroce verso l’imbarbarimento della cultura popolare che ha un doppio bersaglio: da una parte l’alta borghesia e il familismo (amorale) del capitalismo italiano, il mondo dei ricchi e dei radical chic con i suoi gusti fighetti e lo stile compassato, ma anche “comunisti” e sindacati; dall’altra l’ignoranza dell’italiano medio (termine orrendo perché astratto, ma che prova a dare un senso a qualcosa di inafferrabile, che però comprendiamo con chiarezza guardandoci attorno – certo non privi della comprensione d’esserne inevitabilmente parte), la sua sciatta arroganza, il suo maschilismo ancestrale, il razzismo nemmeno troppo velato e la sua stupidità di fondo.
Ma l’operazione commerciale Checco Zalone finge amore verso quest’ultima realtà, ci vuol fare credere che raccontandoci le mirabolanti avventure di un coatto (cozzalone), mettendogli in bocca tutto – l’ipotetico – politicamente scorretto di questi tempi (razzismo, sessismo, berlusconismo), stia tentando di assolvere con amorevole e compassionevole semplicità le storture di un italiano del giorno d’oggi.
Checco e la crisi
La storia di Sole a catinelle utilizza la crisi economica (all’) italiana come sfondo dentro al quale far muovere i propri personaggi. Un’operazione “classica” per la comicità cinematografica d’ogni tempo, quella cioè di imbastire una narrazione “leggera” basata sull’intrattenimento inserita in un contesto realistico. Checco naviga in cattivissime acque perché la sua attività di venditore di aspirapolvere a partita IVA entra in crisi totale, e pure il reddito della moglie viene minacciato dalla chiusura della fabbrica di tessuti per la quale lavora. Ma Checco è uno stupido solare, autentico (così Robert Musil: «La stupidità autentica è un po’ dura di comprendonio, come si dice. È povera di idee e parole, nonché maldestra nell’usarne. Preferisce le cose comuni, che continuamente ripetute le si imprimono bene in testa. Se afferra qualcosa, non se la fa scappare. Non analizza né sottilizza. Sue sono niente di meno che le rosee guance della vita! È vero che pensa in modo vago e basta una nuova esperienza a far tacere il suo pensiero, ma è anche vero che preferisce ciò che si può sperimentare con i sensi o contare sulle dita. In una parola, è la cara “limpida stupidità” che, se non fosse a volte così credulona, confusionaria e addirittura incorreggibile testone, da portare alla disperazione, sarebbe addirittura graziosa»; Sulla stupidità, 1937), un incosciente ottimista che, per mantenere fede alla promessa fatta al figlio, «Se sarai promosso con tutti dieci papà ti regala una vacanza da sogno», si reca in Molise da una vecchia zia con la speranza di appioppare qualche altro elettrodomestico a qualche familiare che non vede da anni – nella vana attesa che qualcosa di buono possa capitare. Ovviamente non venderà nemmeno un pezzo ma, soprattutto, il figlio dopo poche ore vorrà fuggire da quel luogo isolato abitato unicamente da persone anziane. Per una fortuita coincidenza capita però che Checco, con la sua proverbiale mancanza di tatto, riesca – in maniera totalmente inconsapevole – a ridare la voce al piccolo Lorenzo, un bambino afflitto da un blocco emotivo che ne paralizza l’eloquio, chiusosi in un mutismo assoluto. Per riconoscenza, la stupefatta e finalmente felice madre del bimbo “miracolato”, lo accoglierà nella sua sfarzosa vacanza e nel suo dorato mondo fatto di party esclusivi, hotel lussuosi, cavalli, campi da golf, yacht e serate a Portofino. Ed ecco che la «vacanza da sogno» promessa al figlio si concretizza, miracolosamente e senza colpo ferire, per mano di una “principessa” tanto facoltosa quanto riconoscente. Una volta inserito in questo contesto dorato Checco travolge ogni cosa con la sua stupidità, mettendo a nudo la pochezza e pretenziosità del padre di Lorenzo, regista impegnato di film cervellotici e tristi, la pelosa carità borghese della madre della miliardaria e il cinismo del patrigno di lei (Marco Paolini) che, guarda a caso, è pure amministratore della fabbrica davanti alla quale la moglie di Checco si è incatenata, con colleghe e sindacati, nel tentativo di salvarla dalla chiusura (egli è pure a capo della società finanziaria verso la quale Checco ha accumulato una tregenda di debiti). Salvataggio che avverrà grazie a una serie di equivoci da commedia classica, quanti ne abbiamo visti nei film con Totò?, attraverso l’arresto del cinico Paolini e dei suoi amici massoni e della conseguente assunzione della direzione dell’azienda da parte della mamma di Lorenzo. A questo punto il lieto fine (?) è apparecchiato: si riaprono i cancelli della fabbrica e riparte la produzione (con un occhio alle belle tradizioni del tempo che fu); la compagna di Checco ritorna al lavoro e al reddito, mentre lui verrà innalzato al ruolo di direttore commerciale. Un trionfo. In una delle ultime sequenze il nostro sarà impegnato in una contrattazione con compratori cinesi conclusa con l’affermazione dell’orgoglio italico: «Ma guarda questi… il mio primo assegno scoperto l’ho fatto quando c’era ancora Mao… vi alzo una muraglia… volete venire a rubare a casa del ladro?!». La crisi economica, di sistema, morale, sociale, politica e antropologica che dilania l’Italia contemporanea è sconfitta con una botta di culo. Grasse risate. Viva l’Italia!
Medici e Nunziante colgono il sentimento comune, portandolo al riso, dello spaesamento collettivo di fronte a questa crisi economica, dell’incapacità del Paese di pensarsi al futuro. Colgono la totale inerzia che diviene immobilismo, attesa di un evento esterno che possa rimettere in movimento un corpo esangue. Il messaggio di Sole a catinelle è allora il medesimo lanciato dal disturbo ossessivo-compulsivo di massa verso il gioco di azzardo che dilaga nell’Italia contemporanea. Una monetina, gettata dentro a una macchinetta piena di luci, che se il miracolo succede mi procura una vincita risolutiva.
Checco Zalone è una maschera che gioca con la stupidità, la abbraccia e ci sguazza, non per una finalità catartica ma istituzionalizzando, rendendo cioè possibile, il lieto fine di una favola interpretata da un eroe (non un anti-eroe) pervaso dall’immaginario berlusconiano. Quello che trionfa è l’utopica affermazione di una visione del mondo e della società che nega ogni problema sociale e economico in favore di un insano ottimismo preconcetto, quasi fideistico; trionfa l’elargizione di un compassionevole gesto di carità motivato unicamente dal miracolo della voce donata al figlio della miliardaria. Non solo Checco è «più stronzo dei ricchi, ambisce solo ad assomigliargli e alla fine, diventa peggio di loro», ma in Sole a catinelle vincono solamente i ricchi. La vita della famiglia Zalone viene miracolosamente riscattata per un fortuito incontro, il plebeo compie un miracolo nei confronti del figlio di una miliardaria e, come ricompensa, questa salva il posto di lavoro della moglie e premia il marito con un importante incarico nella sua azienda (incarico per il quale non possiede alcun merito). Non siamo di fronte a una catarsi (dal greco ‘purificazione’), ma a un vero e proprio insozzamento: tutti ce la possono fare, bisogna vivere leggeri e sperare nella botta di culo. Quello che mi preme sottolineare, e che costituisce a mio avviso un unicum, sta nel fatto che la sceneggiatura scritta da Medici e Nunziante è distante anni luce dal cinema comico di ogni epoca che, a qualsiasi poveraccio che metteva in scena, concedeva almeno un calcio negli stinchi all’autorità costituita (Marx Brothers, tutto Chaplin… Keaton, John Landis). Zalone si incappuccia e presta giuramento a una loggia massonica, irride una cena di beneficenza, spernacchia il cinema italiano, gli immigrati, i ricchi, i disoccupati, i radical e i “comunisti”, ma non sa mai quello che sta facendo; o meglio: non comprende in alcun modo quello che le sue azioni producono negli altri. Egli è un individualista con i paraocchi, attento unicamente al proprio clan di riferimento e alla propria egomania. Charlot, quando dava un calcio a un poliziotto, sapeva sempre che il suo era un gesto di ribellione, sapeva che quel gesto di rottura delle convenzioni e dell’ordine costituito, istintivo ma voluto, era un esplosione nell’animo dello spettatore, un lampo di riscatto e dignità. Allo stesso modo della proverbiale cagata pazzesca di fantozziana memoria.
Medici e Nunziante danno al pubblico ciò che il pubblico vuole, cioè una sospensione di ogni giudizio morale verso le proprie vite. Un film come Sole a catinelle è costruito per attrarre in sala il maggior numero di spettatori con la promessa di restituire, previo pagamento di un biglietto di ingresso, intrattenimento comico spensierato. Il pubblico non vuole essere giudicato, ma vuole essere rinfrancato, vuole che un film eviti di rimarcare le sue bassezze o cadute di stile, la sua ignoranza, perché ogni comportamento “scorretto” è giustificato dal fatto che non esistono alternative concrete a questa realtà. Il pubblico (cioè i grandi numeri dei grandi incassi) non vuole giudizi di valore sulle proprie vite. Vuole entrare in sala e lasciare fuori “tutto il resto”. Checco, come ognuna delle persone sedute in sala, nell’autunno eterno del nostro scontento di una crisi economica infinita, deve sbarcare il lunario. Non esistono alternative. La vita si misura con il successo economico. «Non ho studiato e non ho letto libri perché dovevo spaccarmi la schiena per fare soldi per me e la mia famiglia, per i miei figli». Questo ci è stato insegnato e questo è esattamente ciò che pretendiamo, al cinema come in televisione. Ogni altro obiettivo sarebbe una sconfitta, dunque «Checco è uno di noi». «Noi siamo Checco». «Lui è tutto il peggio di quello che sono». Un personaggio così nella realtà non esiste, ma ognuno di noi possiede un pezzetto di quella stupidità e per questo siamo pronti a perdonargli tutto, perché – per lui come per noi – quello che conta è il sostentamento e il raggiungimento della propria “realizzazione” personale, che è solo economica e familiare, o di clan, ma mai collettiva. Ma un film che intende lasciare “tutto il resto” fuori dalla sala, e che proprio da questo “resto” ricava lo spazio scenico e narrativo dentro al quale provocare il riso è, quantomeno, ambiguo (ma sicuramente abile e furbo quanto è necessario al raggiungimento dei grandi numeri che l’operazione da 1300 copie richiede).
Ma esistono alternative di sceneggiatura possibili? Perché non far vivere a Checco un qualche conflitto etico? Anche uno solo. Perché non fargli dare qualche calcio negli stinchi al potere? Anche uno solo. Si sarebbe pregiudicato qualche milione percorrendo in sceneggiatura strade differenti? Anche una sola. Produttore (Pietro Valsecchi) e distributore (Medusa) avrebbero accettato una qualche sovversione dell’ordine costituito?
Come è umano lei
Detto questo, la commedia comica diretta da Gennario Nunziante è senz’altro la più compiutamente cinematografica e convincente della trilogia sin qui data alla luce con protagonista il moderno Fantozzi del secondo decennio degli anni 2000. Ma Fantozzi è tutt’altra cosa rispetto a Zalone. Quello che differenzia le due maschere è la dignità: ultimo baluardo da abbattere per il personaggio creato da Paolo Villaggio e motore attraverso il quale mettere in moto ogni singola gag comica; totalmente assente, desertificata, in Zalone. Checco non ha alcuna dignità da difendere o preservare, a differenza del Rag. Ugo che ogni volta spezza le catene delle caste salvo finirne stritolato immancabilmente. La dignità in Fantozzi è un elastico, teso durante ogni sopruso, ma sempre pronto a rompersi dando sfogo al ribellismo del subalterno. La partita a biliardo con il Gran Lup. Man. e la visione forzata de La corazzata Kotiomkin (per una questione di “lesa maestà” nemmeno il grandissimo Luciano Salce poté permettersi di irridere il venerato Maestro Ejzenštejn dovendosi accontentare di una – peraltro spassosissima – assonanza) sono spassosissimi momenti drammatici di rottura delle convenzioni di casta, attimi in cui la dignità viene compressa e calpestata, lampi durante i quali uno scatto revanscista, ludico e rivoluzionario, fa saltare l’ordine costituito. Checco è privo di alcuna dignità, egli è talmente ottuso da non accorgersi nemmeno per un solo istante della posizione umiliante nella quale si è entusiasticamente infilato.
È comunque bizzarro che, nel momento in cui la crisi economica morde con maggiore ferocia, il film campione di incassi sia interpretato da un comico personaggio che trova il proprio riscatto unicamente in un colpo di fortuna ricevuto dall’alto di un reddito imponente. Voglio dire che il film campione d’incassi, nell’Italia del 2013, non è la storia di un poveraccio che piglia a calci negli stinchi potenti e parrucconi, poliziotti e industriali, alla Chaplin per capirci, ma non possiede nemmeno lo scatto d’orgoglio di un Ugo Rag. Fantozzi. Nell’Italia rassegnata e spaesata il folks trionfante, il campione dell’arte del sopravvivere, è un povero idiota, arraffone e patetico, privo di orgoglio. Uno che vince per fortuna, il cui unico merito è la fame.
Checco vince sempre, come la stupidità (Fantozzi invece, e immancabilmente, perdeva ogni volta). E se la morale della favola di un film come Sole a catinelle è che lo stupido vince sempre perché la sua fame è in grado di abbattere ogni resistenza, allora i casi sono due: o ci troviamo di fronte a un lieto fine beffardo, oppure a un lieto fine auto assolutorio verso il personaggio e la società italiana.
«Poco interessanti catene di cause ed effetti terapeutici, dietetici, sociali, politici, tecnologici spiegano l’esponenziale proliferazione della ‘bêtise’. Figlia del progresso, dell’idea di progresso, essa non poteva che espandersi in tutte le direzioni, contagiare tutte le classi, prendere il sopravvento in tutti i rami dell’umana attività. È stato grazie al progresso che il contenibile “stolto” dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società ch’egli si compiace di chiamare “molto complessa” gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumerevoli poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per “realizzarsi”. Sconfiggerlo è ovviamente impossibile. Odiarlo è inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni» (Fruttero & Lucentini, La prevalenza del cretino, Arnoldo Mondadori Editore, 1985).
Superpapà
Altro elemento scabroso, forse il più urticante prodotto dall’ultima fatica di Medici e Nunziante, è il ruolo di padre, anzi di Superpapà, del quale si ammanta Checco. L’intero film è infatti inscritto in un racconto in prima persona, del figlioletto Nicolò, che andrà a comporre il tema che la maestra di italiano assegna ai ragazzi il primo giorno di scuola. Sole a catinelle è il mito che Nicolò ha del proprio padre. È il racconto di una vacanza incredibile, fatta senza un euro insieme ai ricchi, con i ricchi, come i ricchi, che in un solo colpo risolve il dramma economico e familiare (anche la coppia rischia di scoppiare) nel quale la scelleratezza di questo strambo pater familias aveva precipitato ogni cosa.
Se nei due film precedenti Checco è poco più che un ragazzo, un cantante neomelodico in cerca del successo nel primo film della serie, Cado dalle nubi (2009), e un addetto alla sicurezza del Duomo di Milano nel successivo Che bella giornata (2011), in Sole a catinelle è un marito (sconclusionato) e padre di un ragazzino sveglio e istruito, decisamente odioso nella sua precisione da primo della classe. Checco è padre, un padre degenere, che bombarda il figlio di insegnamenti retrivi: un pessimo educatore, che istruisce il figlio con comportamenti antisociali e fraudolenti. Come Ugo Tognazzi nell’episodio L’educazione sentimentale de I mostri.
I mostri di Dino Risi, film a episodi interpretato dai “giganti” Tognazzi e Gassman, può essere considerato, a buon titolo, come il paradigma della corrosività cinematografica della commedia italiana. Nessun’altra opera, come quella in questione, illustra con didascalica ferocia i vizi e le aberrazioni di una nazione e degli individui che la compongono, offrendo un campionario di meschinità e bassezze e brutture inarrivabile, confezionato con uno stile e un linguaggio estremamente popolari – fu il secondo incasso dell’anno 1963. Sceneggiato da una squadra di autori del calibro di Ruggero Maccari, Dino Risi, Furio Scarpelli, Elio Petri, Agenore Incrocci e Ettore Scola può considerarsi come un riferimento implicito della saga di Nunziante e Medici. Checco è, a tutti gli effetti, un mostro dell’Italia contemporanea, una caricatura dei molti vizi e delle rade virtù dell’oggi, un elemento aggiornato della celebre galleria di mostruosità firmata Dino Risi. Sole a catinelle entra in dialogo diretto con il primo episodio del capolavoro del ’63, L’educazione sentimentale. La storia è quella di un padre degenere (Ugo Tognazzi) indaffarato nell’educazione del figlio (un Ricky Tognazzi bambino) attraverso una serie di insegnamenti disonesti e truffaldini verso il prossimo e la società. Come Checco il personaggio interpretato da Tognazzi si fa carico di insegnare al figlioletto tutte quelle scorciatoie e disonestà che semplificano l’esistenza, secondo una filosofia spiccia esemplificata dalla continua ripetizione di motti popolari e proverbi: Con un no ti spicci, con un sì ti impicci; Il mondo è tondo e chi non sa stare a galla va a fondo; Chi picchia per primo, picchia due volte; Meglio un bel processo che un bel funerale; Se vuoi andar bene nella vita, mai fidarsi di nessuno.
Ma i due testi (Sole a catinelle e L’educazione sentimentale) differiscono vistosamente nella conclusione. Dino Risi il padre degenere lo fa uccidere proprio dal ragazzino cresciuto che, educato al cinismo, per sbarcare il lunario, non troverà altra soluzione che l’omicidio paterno. Didascalia: “Dieci anni dopo”; titolo in prima pagina de «Il Giorno»: “Uccide il padre dopo averlo derubato”. Una risata amara alla fine di una favoletta (a)morale, in pieno stile Risi. Mentre Nunziante e Medici chiudono il loro film sull’apoteosi del padre, assurto al ruolo di Superpapà, come canta entusiasticamente una voce fanciulla: «C’è un super eroe / che batte tutti quanti gli altri sai / non ha le ali non ha missili / non ha nemmeno un razzo / si può dire un eroe del / nostro tempo oramai / nemico delle banche e degli usurai / della mostruosa crisi maledetta / che all’angolo lo aspetta / ma si fa una spugnetta / e la cancella in fretta / ed anche se è in bolletta vincerà / che poteri magici ci avrà / questo suuuuuuu / Superpapà assegni postdatati / Superpapà prestiti rateizzanti / Superpapà finanziamenti a nome dei parenti / Sta nella merda ma / ce la farà».
Nella commedia italiana dell’epoca del boom registi e sceneggiatori irridono la cafonaggine attraverso la sua rappresentazione caricaturale (la squadra di sceneggiatori de I mostri veniva quasi integralmente dalla redazione del giornale satirico Marc’Aurelio: Ruggero Maccari, Furio Scarpelli Agenore Incrocci e Ettore Scola), mettendo in scena lo sfregio del senso civico, l’attitudine prepolitica della società italiana, dei suoi (ab)usi e (s)costumi. Questa tendenza è proseguita per decenni senza soluzione di continuità, dando vita a una galleria mostruosa di personaggi deformi più veri del vero che, con il loro cinismo, ci hanno incantati e atterriti, strappandoci risate grasse e amarissimi ghigni. Ma Nunziante e Medici a differenza di tutti i loro colleghi, passati e presenti, scelgono con risoluta lucidità la mitizzazione del padre degenere. A tanto non sono arrivati nemmeno I soliti idioti, la cui maschera più celebre, anziano padre super cafone e figlio sfigato, reitera gli insegnamenti sguaiati all’infinito senza che questi vengano mai abbracciati convintamente dal figlio, né tanto meno accettati, producendo l’effetto comico attraverso la messa in scena di gag comiche sempre più riprovevoli e per questo esilaranti (ovvio che il giudizio sia soggettivo). C’è sempre stato nel cinema popolare italiano, quello più vicino alla risata grassa, di frequente ipervolgare, un candore codino di fronte agli istinti bassi, all’anarchica e tutt’altro che civica attitudine dell’italiano ad arrangiarsi. Quel che in esso soffia è una divertita adesione al gusto dell’eccesso linguistico, una parodizzazione iperrealista del fijo de ‘na mignotta giganteggiata per almeno tre decenni da Christian De Sica. Egli ha dato vita a una maschera di alto borghese arraffone, sempre sull’orlo di una crisi – economica e sentimentale – causata dalla propria cialtronaggine, sprezzante di ogni decenza e portatore di una morale utilitaristica cinicamente spietata, ma mai la sua maschera si è data come un potenziale modello positivo. Uno degli aspetti più inquietanti, nell’apparentemente innocuo Sole a catinelle, è proprio la mitizzazione di questo padre, sottolineata programmaticamente in apertura del film (i titoli di testa scorrono sulle note) e ribadita in conclusione, dalla canzone Superpapà. Mitizzazione che è inscritta in tutto l’arco narrativo e che, come precedentemente ricordato, si struttura come il tema scolastico delle proprie vacanze estive dal bambino Nicolò.
Dunque è corretto quanto affermato da Medici nell’intervista a Pagani per Il Fatto: «Abbiamo preferito mostrare un disgraziato che si mostra più stronzo dei ricchi, ambisce solo ad assomigliargli e alla fine, diventa peggio di loro». Ma perché fare diventare mito agli occhi del proprio figlio questo stronzo più stronzo degli stronzi? Perché la famiglia vince su tutto, perché il legame di sangue è il solo legame che in una società prepolitica abbia valore.
La (a)morale delle favola
In conclusione. Il carattere centrale di Sole a catinelle si configura come un Giano bifronte, un’unità composta da due parti distinte, da due anime differenti che coabitano in un’unica figura. Da una parte Checco è un poveraccio verso il quale, per un riflesso condizionato, siamo portati a simpatizzare; dall’altra è l’incarnazione del populismo di destra, aggressivo verso ogni minoranza e sprezzante verso ogni anche minima forma di intelligenza. Se qualcuno avesse progettato un sistema retorico di salvaguardia del potere capitalistico attuale, dello status quo economico e politico, non avrebbe potuto riuscirci meglio di Medici e Nunziante che, forse non a caso, sono prodotti da Pietro Valsecchi e distribuiti da Medusa.
«Prendono un comico e vi fanno sembrare simpatico il “pensiero unico”», frase illuminante che prendo a prestito senza chiedere il permesso a Luca Rea (regista e autore RAI), e che mi pare possa ben sintetizzare l’estrema insidiosità di un film in apparenza totalmente innocuo che, dal punto di vista industriale, con la sua pervasiva distribuzione, è da registrare negli annali del cinema italiano come il prodotto che più di ogni altro ha saputo massimizzare il potenziale economico del sistema multisala. Il film, uscito praticamente senza concorrenti, ha occupato (quasi) ogni schermo di ogni multisala italiana. Roba da socialismo reale per la mancanza di scelta davanti alla quale lo spettatore è stato abbandonato come di fronte alla porta della legge del romanzo kafkiano. Non c’è scelta, non esiste libero arbitrio nella società dei consumi dei multi scaffali a prodotto unico dei centri commerciali dentro ai quali le uniche “cose” in vendita, gratuitamente, sono le nostre esistenze. Con Sole a catinelle siamo giunti ben al di là di una distribuzione poderosa, siamo dalle parti del pensiero unico. Non c’è scampo alcuno, non basta pensare di potersi salvare scegliendo di non entrare in sala. La demolizione di qualsiasi alternativa, l’asfaltamento di qualsiasi programmazione, la disintegrazione di qualsivoglia scelta, è un dato di fatto che annichilisce ogni reazione. L’amore fedifrago di Nettuno che scatenò lo sdegno oltraggiato di Minerva (cioè Medusa) ha realizzato, nell’autunno 2013 del nostro scontento, un sortilegio che, artefatto da bonario segno di una ripresa dei consumi spensierati e popolari, camuffato da rondine che dovrebbe far primavera, segnala lo sfinimento di un pubblico prosciugato da ogni fantasia e coraggio per la curiosità. Omologazione definitiva e conclamata. Encefalogramma piatto. Il sortilegio di Medusa, per quattro risate acconciate da boccata d’ossigeno nelle nebbie di una crisi infinita, pietrifica l’esistente e ipoteca il futuro.
Sole a catinelle è la favola del berlusconismo. Dunque il lieto fine è propaganda, una menzogna. Non è questione politica, qui la politica non c’entra proprio nulla, perché il berlusconismo, personalmente, lo concepisco come un termine ombrello che identifica (in maniera sfocata) l’attuale stato antropologico di quegli esseri umani che siamo soliti definire italiani. Il berlusconismo è la pancia del paese, il suo proto fascismo infinito ed egualmente sfinito. Un atteggiamento mentale prepolitico che illude sé stesso di un futuro irrealizzabile, con barbari alle porte e forconi per le strade. L’uomo che si fa da se in uno scenario impoverito a colpi di scorciatoie e che ci viene propinato in maniera coatta, ripetuto all’infinito come una cura Ludovico, pronto a colmare ogni spazio libero dell’esistente. •
Alessio Galbiati
Post scriptum
Come anticipato dalla citazione di Flaiano utilizzata in apertura – «La stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia» –, quel che maggiormente mi interessa è la mia propria e personale stupidità, non quella d’altri, figurarsi quella di Checco Zalone. Seguendo Musil non è difficile (auto)diagnosticarmi una stupidità intelligente, resa plastica e monumentale in questo illogico tentativo d’afferrare l’inafferrabile a partire da un film come Sole a catinelle. «In stridente contrasto con la stupidità autentica sta quella pretenziosa. Non è tanto mancanza di intelligenza, quanto il suo venir meno, quando si impegna in prestazioni che non sono alla sua portata. Può avere tutte le peggiori qualità dell’intelletto debole, con in più quelle derivanti da un’indole non equilibrata, immatura e incostante, in breve malsana. Poiché non esiste l’indole “normale”, nella derivazione della sanità si esprime, a dire il vero, l’insufficiente cooperazione tra unilateralità del sentimento, da una parte, e incapacità dell’intelletto a dominarla, dall’altra. Questa superiore stupidità è la vera malattia della formazione culturale». Ma non posso nascondere che l’aver portato a conclusione questo testo così malsano, poterlo anche solo illusoriamente considerare compiuto, provoca in me un’enorme liberazione, mi infonde l’idea di essermi tolto un macigno, perché quando un’idea, o una montagna pesantissima di intuizioni aggrovigliate fra loro, ti intoppa ogni altra, provoca una colonna (infame) di altre stupidaggini in cerca di forma. Finalmente alleggerito posso tornare a occuparmi di nuove sciocchezze.
Sole a catinelle
Regia: Gennaro Nunziante
Soggetto, sceneggiatura: Luca Medici, Gennaro Nunziante
Fotografia: Agostino Castiglioni
Montaggio: Pietro Morana
Musiche: Luca Medici
Suono: Massimo Simonetti
Casting: Elisabetta Curcio
Costumi: Marina Roberti
Aiuto regia: Laszlo Barbo
Scenografie: Francesco Frigeri
Post-produzione: Claudia Vivenzio
Organizzatore di produzione: Giacomo Gagliardo
Organizzatore (Taodue): Emanuele Emiliani
Produttore: Pietro Valsecchi
Interpreti principali: Luca Medici (Checco Zalone), Aurore Erguy (Zoe Marin), Miriam Dalmazio (Daniela), Robert Dancs (Nicolò), Ruben Aprea (Zoe Marin), Valeria Cavalli (Juliette Marin), Orsetta De Rossi (Domiziana), Matilde Caterina (Zia Ritella), Stefano Sabelli (Onofrio), Daniela Piperno (Giovanna), Lydia Biondi (Carolina), Augusto Zucchi (Piergiorgio Bollini), Marco Paolini (Vittorio Marin), Alessandro Bressanello (Dott. Surace)
Produzione: Taodue
Distribuzione: Medusa
Suono: Dolby Digital
Rapporto: 2.35 : 1
Camera: Arri Alexa Plus
Laboratorio: Deluxe Digital Rome
Negativo: Codex
Processo fotografico: ARRIRAW (2.8K) (source); Digital Intermediate (2K) (master)
Formato di proiezione: 35 mm (anamorfico), D-Cinema
Paese: Italia
Anno: 2013
Durata: 83′