ISTINTO SPERIMENTALE
Intervista a GABRIEL ABRANTES
a cura di Alessio Galbiati, Roberto Rippa, Cristina Terzoni
da Rapporto Confidenziale 37
Gabriel Abrantes (Chapel Hill, North Carolina, 1984) è fra i più interessanti giovani filmmaker contemporanei, come testimoniano la presenza fissa delle sue opere nei maggiori festival internazionali e le retrospettive a lui dedicate a Belfort, Vienna e Londra. Il suo stile, film dopo film, comincia a farsi chiaro e sempre più preciso, strutturandosi in una poetica riconoscibile, una visione del mondo per immagini tutta cinematografica, ma aperta ad altri linguaggi – in primis quello pittorico. Quello di Abrantes è un cinema complesso nella sua vorticosa riproduzione di schemi narrativi ricorsivi, nel suo cinema infatti tornano temi e situazioni, come pure il fatto di firmare ogni sua pellicola con co-registi differenti (Benjamin Crotty, Daniel Schmidt, Katie Widloski, Alexandre Melo e, prossimamente, Ben Rivers), quasi a voler sottolineare l’impossibilità ontologica d’essere autore singolo di un’opera cinematografica. Nel suo cinema tendono a porsi polarità, mondi distanti, visioni differenti, che per un qualche motivo capitano una di fronte all’altra, il tutto entro set naturali straordinari che lasciano stupefatto lo spettatore. Sotterraneo corre pure un continuo conflitto di classe, fra i personaggi e la società o fra gli stessi, ma pure una riflessione continua attorno all’identità di genere (sessuale). Abrantes è Laureato in Arte, cinema e arti visive alla Cooper Union for the Advancement of Science and Art di New York, ha studiato presso l’École nationale supérieure des beaux-arts di Paris e Le Fresnoy – Studio national des Arts Contemporains. Dal 2002 espone con regolarità le proprie opere pittoriche da Lisbona a Porto, dall’Olanda al Giappone, passando per l’Inghilterra la Francia e molti altri paesi. Nel 2008, i suoi cortometraggi Olympia I e Olympia II vengono selezionati al Festival IndieLisboa, dove, l’anno successivo, vince il New Talent Fnac Award con Visionary Iraq (2009). Nel 2010 ha fondato a Lisbona, insieme a Natxo Checa e Zé dos Bois, la casa di produzione cinematografica A Mutual Respect, giovane realtà produttiva impegnata nella produzione a basso costo di cinema sperimentale, attenta all’innovazione del linguaggio cinematografico, con la quale ha prodotto l’omonimo cortometraggio vincitore del Pardino d’oro del Concorso internazionale Pardi di domani al Festival di Locarno. Sempre a Locarno presenterà i cortometraggi, Liberdade nel 2011, e Zwazo nel 2012. A Venezia 68 è stato in concorso nella sezione Orizzonti (l’ultima by Sergio Fant) con il mediometraggio Palácios de Pena.
Attualmente è al lavoro su tre nuovi cortometraggi e al suo primo lungo.
Vive e lavora a Lisbona, dove l’abbiamo incontrato.
Rapporto Confidenziale: Regista cinematografico, video artista, pittore, musicista… Puoi raccontare, a noi e ai nostri lettori, chi è Gabriel Abrantes?
Gabriel Abrantes: Direi che oggi sono un regista. Il mio interesse per il cinema è nato dal fatto che di questo linguaggio non possedevo alcuna conoscenza tecnica specifica: non nella scrittura, non nell’uso della macchina da presa, tanto meno nella direzione degli attori, eccetera… Dipingevo da almeno otto o nove anni e credo che il mio avvicinamento al cinema sia stato un modo per scappare da questo, per fare un passo avanti. I risultati ai quali sono giunto, i miei film, derivano dalla sperimentazione… quando non sai come fare una cosa in modo specifico, allora ti ingegni, sperimenti per necessità. La musica è invece una questione imbarazzante. L’ho praticata poco, a dire il vero, e i risultati sono stati piuttosto orribili. Ero ispirato dai Suicide, dal carisma del loro frontman, Alan Vega. Non sapevano comporre musica e quindi si sono inventati la techno come soluzione alle proprie idealità, come soluzione pratica ad un’urgenza creativa. Vega è stato il primo cantante ad avere un beat elettronico come tappeto sonoro alla propria voce. Si è inventato un genere musicale perché non conosceva gli aspetti tecnici né le convenzioni legate alla musica.
Con il cinema per me è andata allo stesso modo. C’è un bellissimo testo di Alain Badiou, Du cinéma comme emblème démocratique (Del cinema come emblema democratico, Trad. it. di A. Simoncini in «Carte di cinema», 17, 2005; NdR.), in cui afferma che il cinema è una sorta di arte impura perché viene dal vaudeville, e altre forme spettacolari ad esso precedente, e in cui definisce il cinema come un miscuglio di tutte le arti. Il cinema è un insieme di tanti linguaggi, non è un’arte pura come lo è per esempio la poesia – ad esempio la poesia portoghese gioca moltissimo con un proprio lingua specifico.
In un certo qual modo provengo da una sorta di idea post-marxista della ribellione al canone, ero alla ricerca di nuove opzioni stilistiche e linguistiche – o anche solo “pratiche”. Il cinema ha rappresentato per me un passo avanti, il risultato del non sapere esattamente cosa stavo facendo.
RC: Il fatto che tu abbia co-diretto (quasi) tutti i film che hai realizzato, può quindi avere a che fare con la necessità di imparare il mezzo e il linguaggio?
GA: Sì, assolutamente. Il mio primo film, Olympia, nasceva dall’interesse che nutrivo per Warhol, dalla sua attitudine a creare situazioni che poi lasciava in mano altrui, scansandosi deliberatamente da ogni tipo di responsabilità. Aveva sempre qualcun altro a dirigere: Morrissey per esempio. Qualcuno dirigeva, qualcuno scriveva, qualcuno recitava, qualcuno disegnava i costumi, ma il tutto nasceva come una situazione collaborativa. E tutto funzionava alla perfezione.
Ho lavorato con Daniel Schmidt, con Katie Widloski, con Benjamin Crotty. Per quanto mi riguarda, il co-dirigere ha a che fare con questa idea di comunità, con l’idea di utilizzare la collaborazione tra le persone come mezzo per progredire e per allontanarsi dal concetto vetusto di autorialità.
RC: Nel tuo cinema sei spesso anche attore, sdoppiandoti davanti e dietro la macchina da presa, e moltiplicando i tuoi ruoli in ognuno degli aspetti dei quali si compone un film. Cosa rappresenta dunque per te il fare cinema? Te lo chiediamo perché l’impressione che se ne ricava è quella di una fusione completa del cinema con la vita, un’attività frenetica che in pochissimi anni di lavoro ha già dato alla luce un gran numero di opere…
GA: Sì, ha sicuramente a che fare con questa idea. Come cineasta puoi avere l’idea di andare in Brasile per trattare di esotismo e turismo sessuale, questo prosieguo di colonialismo portato ai nostri tempi. E quindi devi assumerti il ruolo di regista e attore per creare una situazione. È una questione di responsabilità da parte del regista. In Palácios de Pena recitavo la parte di un inquisitore, il peggior personaggio possibile in assoluto! È un modo per suggerire che il regista è responsabile, ma è pure un modo per riflettere attorno al discorso dell’autorialità. Non siamo attori professionisti, e abbiamo quindi dovuto inventarci un modo per recitare, sottraendo le espressioni per essere deadpan (impassibili). Ci siamo dovuti forzare per essere attori, e questa forzatura rappresentava per noi solo un modo per riuscire a recitare. Anche in questo caso abbiamo sperimento, esplorato qualcosa di nuovo e inedito, per dare forma a un nostro contenuto. Dunque la recitazione è, ancora, una parte di questa sperimentazione continua.
RC: A proposito di ciò che hai detto prima sulle colonie… I set dei tuoi film sono spesso ex colonie (portoghesi, francesi, spagnole): Mozambico, Brasile, Haiti, Angola… o comunque luoghi “lontani”, distanti dall’Occidente (sempre che questa parola possa significare realmente qualcosa). Quale significato ha questa scelta, perché la tua attenzione cade proprio su questi luoghi?
GA: Questa scelta ha sicuramente a che fare con un’analisi di ciò che accade nelle ex colonie. L’Angola, per esempio, ha un rapporto speciale con la Cina, contro gli Stati Uniti e l’Europa. Hanno preferito avere un rapporto con la Cina piuttosto che piegarsi al mondo finanziario statunitense. Abbiamo pensato fosse interessante lavorare su questo aspetto. Il Brasile è molto diverso perché è indipendente da più tempo rispetto alle altre colonie. Certamente molti aspetti del colonialismo sono ancora vivi ai giorni nostri.
E poi sono molto interessato a luoghi che si ricostruiscono. In Brasile e Angola c’è stata una veloce ascesa economica. Ad Haiti no, ma ci sono stati ingenti investimenti a causa del terremoto. Sono luoghi che si stanno riposizionando e che stanno ricostruendo una propria identità. È molto interessante lavorare in questi contesti, perché può capitare qualcosa di inatteso e nuovo in ogni istante. Anche questo ha anche fare con l’autorialità: il fatto di non avere conoscenze tecniche specifiche – anche se ora ne ho un po’ di più – mi ha permesso la sperimentazione. Sono piuttosto insoddisfatto di come vanno le cose e quindi volevo esplorare nuove opzioni, nuove potenzialità. Uno dei modi per farlo era quello di lavorare in Paesi che si stanno sviluppando rapidamente, che si stanno reinventando dopo una crisi, angoli di mondo aperti al nuovo, o anche solo alla sua possibilità.
Nel cinema, la mia mancanza di conoscenze tecniche, poteva (o magari no) creare qualcosa di diverso, esattamente come accade in questi Paesi in forte cambiamento.
RC: Una curiosità: parli di approccio amatoriale al cinema ma, ora che sei più esperto nel girare, cosa cambia nel tuo approccio al cinema?
GA: È vero che sono diventato più esperto tecnicamente, ma penso che nel cinema, come nello sport, se pratichi la disciplina nel modo errato, ti porterai sempre dietro quegli errori, e quei tic ti faranno lavorare sempre nel modo sbagliato. Però forse sarà proprio questo aspetto a farti distinguere fra il conformismo imperante. Il non avere mai studiato cinema, l’avere sempre lavorato con budget molto ridotti, fa sì che il mio cinema abbia un aspetto sperimentale. Abbiamo sempre sviluppato ogni aspetto del mio/nostro cinema con qualsiasi tecnica sperimentale ci passasse per la testa. È stato insegnando cinema all’Head di Ginevra (Haute école d’art et de design) che ho scoperto, spiegando agli studenti come scrivere o produrre, di avere un modo piuttosto eccentrico di lavorare. È come per chi ha un hobby, quelli che magari nel fine settimana lavorano il legno nel loro garage. Ecco, mi sento più vicino a questo tipo di lavoro, che non a quello di colui che il legno lo lavora tutti i giorni in una fabbrica.
Un grande cambiamento che ho notato in me, riguarda l’approccio alla sceneggiatura: venendo dall’arte e da una posizione sperimentale, di avant-garde (ma lontano dal genere sperimentale statunitense alla Brakhage), ho cercato di migliorarmi nella narrazione, pur se come al solito in un modo un po’ strano. Suppongo sia questo il motivo per cui mi vengono in mente idee, come quella che ha preso forma in Zwazo, di contaminare fra loro la rappresentazione greca con le usanze dell’isola di Haiti. Si tratta di un’idea piuttosto strampalata che nasce dalla ricerca che sto conducendo sulle forme della narrazione.
RC: Tornando al discorso relativo ai set naturali dei tuoi film, ci vengono in mente i luoghi incredibili utilizzati in A History of Mutual Respect, per esempio…
GA: Ecco, lì c’è tutto: il discorso sull’eredità, su come la distruggiamo e la reinventiamo, su come la proteggiamo o modifichiamo. Poi ci sono anche le eredità negative. Cosa abbiamo ereditato dall’Inquisizione?
Abbiamo girato presso le cascate dell’Iguazú, le più grandi al mondo (le cascate in questione si trovano sul confine della provincia argentina di Misiones e lo stato brasiliano del Paraná; NdR.), e questo ha a che fare con la dimensione psicologica del nostro patrimonio naturalistico. Ma ha anche a che fare con Hollywood. Noi abbiamo un rapporto stretto con il cinema hollywoodiano. Ma come puoi entrare in relazione con il cinema di Hollywood con 5’000 dollari di budget? Li spendi in biglietti aerei e fai con quello che hai. Il film contiene anche una ripresa dall’elicottero di una favela brasiliana, e questo rappresenta un riferimento al cinema hollywoodiano. Ha a che vedere con l’uso dell’immaginario spettacolare hollywoodiano, ma rivoltato sottosopra rispetto all’originale.
RC: Quando abbiamo visto per la prima volta A History of Mutual Respect siamo rimasti letteralmente a bocca aperta per la meraviglia delle immagini e la forza della storia. Abbiamo pensato ci fosse una forte contraddizione tra i due linguaggi, perché la storia e le immagini sembrano provenire da due tipi differenti, e distinti, di cinema.
GA: Credo sia ancora uno degli aspetti più forti del film e penso che ciò derivi dalla sua forza pittorica. Dato che è proprio dalla pittura che arrivo, dato che questa è la pratica più consolidata per quanto mi riguarda, con tutta probabilità essa è più efficace e potente delle altre tecniche che mettiamo in contraddizione, forse semplicemente perché queste altre stanno dentro di me in una maniera più superficiale. Nel film puoi vedere l’ironia di Daniel (Daniel Schmidt, co-regista e anch’esso attore del cortometraggio in questione; NdR.) nel pronunciare una frase estremamente sessista in modo calmo e quasi sensuale – ma forse questa ironia è troppo visibile. Mentre l’ironia che deriva dall’unire quelle immagini spettacolari con la narrazione è una scelta certamente più sottile – e più efficace a mio avviso. Forse perché la spettacolarità di quelle immagini attiene più alla storia della pittura che a quella del cinema. E forse è proprio per questo che lo ritegno uno tra i film più interessanti che io abbia fatto.
RC: Volevamo sapere qualcosa circa la location di Liberdade, qualcosa in merito al Grand Hotel di Beira, in Mozambico. Com’è stato lavorare in un set del genere, un luogo abbandonato ma abitato da migliaia di persone?
GA: Il palazzo è come una favela verticale. È stato costruito negli anni ‘70 ma non è mai stato completato. Così la gente lo ha occupato, e alcuni addirittura lo subaffittano. Il Grand Hotel di Beira è un palazzaccio di cinquanta piani costruito sulla distruzione di un mercato all’aperto.
RC: Come hanno reagito i suoi abitanti quando siete andati a girare lì?
GA: Si sono verificate due combinazioni felici che ci hanno reso semplice qualcosa di altrimenti davvero complicato. La settimana che siamo arrivati lì, il Presidente ha annunciato a tutti gli angolani, via radio e TV, di stare attenti alle troupe cinematografiche perché avrebbero tentato di dare del Paese un’immagine falsa, soprattutto sulle diseguaglianze sociali. La frizione si sentiva, ma avevamo un buon team angolano. Una di queste persone aveva lavorato come attore in una telenovela locale assai popolare, e quindi, quando è entrato nel palazzo, tutti lo hanno riconosciuto, e hanno pensato che fossimo la troupe di una co-produzione, anziché una produzione internazionale. E poi avevamo pochissimi soldi, ma nel film abbiamo potuto usare un elicottero! Penso che quando credi in una cosa e ti apri al dialogo con le persone, allora tutto diventa possibile. Non avevamo i soldi per l’elicottero ma abbiamo contattato l’esercito e abbiamo chiesto il loro aiuto. E questi incredibilmente ce l’hanno dato senza nessun problema! Poi c’erano gli attori, tutti non professionisti, in gran parte gente del quartiere, che ci hanno fatto voler bene dagli abitanti dell’hotel. Avevamo bisogno di una ragazza cinese e abbiamo chiamato l’Ambasciata chiedendo se ci fosse una ragazza in grado di recitare, e in pochissimo tempo una giovane giornalista si è aggiunta alla nostra squadra. Il tutto è durato 14 giorni, un tempo molto breve. Abbiamo letto i dialoghi in modo molto veloce con un gruppo di persone e abbiamo cercato di arrivare a ciò che volevamo. Un sacco di cose che avevamo in mente non sono poi successe. Ma avevamo forse troppe idee, troppe traiettorie che non siamo stati in grado di portare a compimento.
RC: Guardando A History of Mutual Respect è difficile pensare che si tratti di un film a basso budget. Location esotiche, movimenti di macchina pirotecnici e complessi, una ricchezza fotografica davvero notevole…
GA: Avevamo davvero pochissimi soldi e la sfida è stata quella di vedere cosa saremmo riusciti a fare con così poco.
RC: Molti attendono di avere tutti i soldi necessari per girare la loro opera prima…
GA: Sono stato fortunato, in un certo senso. Il mio primo film Olympia è costato 500 euro. Le camere appartenevano alla scuola e il resto era della co-regista Katie Widloski. Abbiamo fatto tutto da soli, dietro l’obiettivo non c’era nessuno, gli attori eravamo noi. Ho fatto 11 film in 6 anni e mi sono specializzato nel lavorare così. Ne è valsa la pena. È lavorando anche nella produzione che è possibile esplorare le idee, non attraverso elucubrazioni astratte fatte a casa propria. Non è così che farai passi avanti nella tua idea di cinema.
RC: Ti interesserebbe, ora, lavorare in altro modo, con più mezzi, con tutto ciò che ti serve?
GA: Sicuramente, però c’è anche la paura di ritrovarsi stretti in un angolo, in uno spazio angusto entro il quale sperimentazione diventerebbe sterile e convenzionale. Ma, se fosse possibile evitare questo rischio, sarebbe stupendo avere più mezzi per la lavorazione e la post-produzione. Sarebbe fantastico poter avere anche i soldi per pagare gli attori! C’è eccome la voglia di fare un passo avanti, ma voglio mantenere vivo questo dinamismo, questa totale libertà creativa.
RC: Un’altra curiosità tecnica su A History of Mutual Respect: il film contiene un incredibile carrello all’interno della foresta che segue la corsa dei protagonisti. Una sequenza pazzesca, ma fatta con pochissimi mezzi finanziari. Ci puoi raccontare come l’avete realizzata?
GA: L’operatore stava su un’automobile guidata da un’altra persona. L’auto è sulla strada e la ripresa è in slow motion – cosa che aiuta non poco. Tutto qui. È stato un procedimento esatto per quel che andavamo cercando. Con una steadycam l’effetto sarebbe stato diverso.
Tutte le nostre decisioni sono prese in base alla situazione produttiva coniugata con le intenzioni estetiche. Per esempio, non usiamo il suono in presa diretta, facciamo tutto in post-produzione. Questo ci permette di non avere un fonico sul set. Ma anche questa è una scelta estetica, perché ci permette di distanziare la camera da ciò che riprende, senza preoccuparci del suono. Alcune soluzioni tecniche nascono da esigenze produttive.
Il direttore della fotografia con cui lavoro più spesso non è un professionista (Eberhard Schedl; NdR.). È con noi sin dal primo film, è cresciuto con noi. In Palácios de Pena, c’è una scena in cui sono vestito da cavaliere medioevale, legato a testa in giù ad una fune. Era una scena complicata ma, anziché essere focalizzata su di me, la macchina da presa si preoccupava unicamente della fune. È un dettaglio meraviglioso che con una persona più esperta sarebbe forse andata perso.
Ci assumiamo i nostri rischi. E penso che anche gli attori abbiano fatto un lavoro magnifico, pur non essendo professionisti. Alcuni dettagli eccentrici vengono anche da questo.
RC: Quindi il fatto di non avere usato attori professionisti ha permesso di inventare al momento, di scoprire situazioni non previste…
GA: Sì, l’amatorialità riguarda anche questo.
RC: Palácios de Pena, presentato a Venezia 2011, è una complessa riflessione sul Portogallo e la sua storia. Un film affascinante, estremamente saturo di suggestioni di varia natura. Puoi raccontarci come nasce il progetto, quale messaggio hai voluto costruire?
GA: Il film è stato finanziato da un night club di Lisbona. Avevano organizzato un’esposizione con dieci artisti per il suo decimo anno e hanno invitato anche me. Io volevo girare un film e, ovviamente, è difficile farlo in un luogo come quello, perché tutto si sarebbe svolto nel club. Quindi ho scelto una piccola sala, con una porta che era possibile chiudere. C’era uno schermo al plasma e lo spazio per soli tre spettatori. Era una sala destinata al consumo di droghe e sesso. Era una situazione che volevo collegare al film. Mi interessavano il tema del sesso e quello del controllo delle situazioni: come ai tempi dell’Inquisizione in Portogallo: la castrazione del potenziale sessuale. Nei night club capita spesso di trovare una struttura che replica quella dei licei: i modi in cui la gente si veste, come si propone, il discorso sul dominio del denaro, il prezzo per l’entrata, la fila all’esterno. Ecco perché ho scelto ragazze tra i 12 e i 14 anni per la parte contemporanea. Non era permesso loro di entrare nel locale, penso si debbano avere almeno 16 anni per poterlo fare. Siccome le ragazze si sviluppano prima rispetto ai ragazzi, incominciano presto a usare l’abilità nell’usare la sessualità come meccanismo sociale. Le ragazze hanno già la nozione della possibilità di usare il loro corpo per suscitare una reazione nei ragazzi. I ragazzi ci arrivano due o tre anni dopo. Quindi, volevo legare questo discorso all’Inquisizione. Il discorso sull’utilizzo biologico del sesso come strumento di potere, e l’Inquisizione come idolatria del sesso, come strumento di potere, ma pure la sua distruzione, come accadeva per i gay.
RC: In Olympia il riferimento alla pittura di Monet è esplicito, ma quale era il tuo, il vostro, obiettivo?
GA: Il rapporto è assolutamente esplicito: Olympia, proprio come il titolo di una delle sue opere più celebri. Monet per me è molto interessante perché possedeva un rapporto con il realismo, teso in un certo qual modo alla sua distruzione. Usava ambientazioni realiste lavorando però in studio. E poi giocava con molti aspetti sociali. In Olympia c’è questo confronto sessuale: la donna ritratta, si suppone una prostituta, guarda direttamente chi la guarda, creando un dialogo. È come se il cinema abbattesse la quarta parete. È nuda e si copre il sesso. Controlla la situazione. E poi c’è una donna nera che fa la serva, presenza che apre il discorso sulle condizioni razziali. Quindi, ci sono un po’ di aspetti politici: sessualità, potere del soggetto, l’oggetto, coloro che guardano il dipinto, e infine le relazioni coloniali. In questo dipinto ci sono già molte delle idee sulle quale intendevo lavorare: politiche razziali, sociali, sessuali. E il lavoro sulla relazione con lo spettatore. Questo è ciò che ho voluto fare. Ma c’era in me anche la voglia di proseguire quella tradizione artistica dissacrante e irrispettosa con la tradizione. Ho usato un modo molto liberale nel relazionarmi con il dipinto. Ma ho come la certezza che Monet stesso avesse già fatto la stessa identica cosa. Dunque non è solamente un omaggio a uno dei pittori che amo di più, e verso il quale nutro maggiore rispetto, ma l’appropriazione irriverente della sua opera per sviluppare le mie riflessioni personali.
RC: A Mutual Respect è anche il nome della casa di produzione che hai fondato con Natxo Checa. Quali sono i suoi scopi e i suoi progetti?
GA: Per il momento ha prodotto i miei film. Quando godrà di migliore salute contiamo di produrre film di altri registi.
RC: Ti interesserebbe farlo?
GA: Sì, ma vedremo quando ci arriveremo.
RC: Sappiamo che sei al lavoro sul tuo primo lungometraggio, ce ne puoi parlare?
GA: Ora stiamo lavorando al nostro primo lungometraggio e vedremo cosa accadrà. Lo gireremo nel 2013. Nel frattempo stiamo lavorando ad altri tre cortometraggi. Uno lo girerò a dicembre in Brasile con Daniel Schmidt. Un altro lo dirigerò con Ben Rivers. E poi il terzo lo girerò in Francia, mentre il lungo è già scritto. Tratta di due ragazze che scappano da Haiti e fingono di essere due sorelle rimaste orfane. Verranno adottate da una ricchissima donna brasiliana con cui inizierà una relazione sessuale. Mi piace l’idea di trattare il tema dell’adozione, con tutti gli annessi politici che il tema solleva, come se fosse una propaggine del comportamento colonialista, all’interno del quale coabita comunque una dimensione positiva. Mi interessa pure la dimensione politica del gesto, basti pensare a quel che ha fatto Madonna in Malawi…
RC: Questa estate abbiamo avuto modo di intervistare João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata. Erano entrambi molto frustrati dalla situazione politica portoghese a riguardo della cultura, e del cinema in particolar modo. Qual è il tuo punto di vista?
GA: È una situazione molto complicata. Il sistema di sostegno finanziario per il cinema è chiuso da un anno. Il Ministero della cultura è stato abolito e ora c’è solo un sottosegretario, che risponde direttamente al Primo ministro. Non è più indipendente. Il segretario alla cultura ha appena lasciato. Non so… un anno senza finanziamenti al cinema…
Anche per i festival: IndieLisboa e DocLisboa non avranno finanziamenti per l’edizione 2013. Alcune case di produzione hanno in piedi progetti che erano stati finanziati nel 2011, ma i soldi stanziati nel 2011 non sono ancora arrivati e quindi gli unici che sono riusciti a realizzare qualcosa sono coloro che hanno ottenuto un finanziamento nel 2010 – arrivato oltretutto in ritardo.
Per il nostro lungometraggio abbiamo per la prima volta ottenuto un finanziamento dal governo, ma i soldi arriveranno in ritardo rispetto a quando promesso.
La gente è ottimista perché questo aiuta ad andare avanti. Io, però, sono scettico, perché se il governo non dovesse trovare 20 milioni di dollari, non accadrà nulla. E 20 milioni di dollari non compaiono improvvisamente dal nulla. Sono più scettico di quanto lo sia molta altra gente. •
Lisbona, 29 ottobre 2012
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GABRIEL ABRANTES / FILMOGRAFIA (aggiornata alla fine del 2012)
2012
ZWAZO • corto • regia: Gabriel Abrantes
2011
FRATELLI • corto • regia: Gabriel Abrantes e Alexandre Melo
PALÁCIOS DE PENA • medio • regia: Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt
BABY BACK COSTA RICA • corto • regia: Gabriel Abrantes
LIBERDADE • corto • regia: Gabriel Abrantes e Benjamin Crotty
2010
A HISTORY OF MUTUAL RESPECT • corto • regia: Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt
2009
VISIONARY IRAQ • corto • regia: Gabriel Abrantes e Benjamin Crotty
TOO MANY DADDIES, MOMMIES AND BABIES • corto • regia: Gabriel Abrantes
2008
ARABIC HARE • corto • regia: Gabriel Abrantes
2007
OLYMPIA II • corto • regia: Gabriel Abrantes e Katie Widloski
OLYMPIA I • corto • regia: Gabriel Abrantes & Katie Widloski
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A Mutual Respect productions
mutualrespectproductions.blogspot.it
vimeo.com/gabrielabrantes
Cover image: Rielaborazione da uno scatto di LM Miguel Manso