Nel cinema di Pietro Marcello esiste sempre un punto di partenza ricollocato. La vicenda si sgretola, si dirama e si ricompone. Così è lui. Nella nostra conversazione, si parla di un argomento e scivoliamo dappertutto. Dal cinema alla realtà, inevitabilmente (e fortunatamente). D’altra parte, seppur atipico, il suo è comunque un lavoro da documentarista. Il tocco poetico, la ricchezza formale, la bellezza estetica approdano al ritratto della realtà. E la realtà, è noto, si compone di un ordine diverso da quello della fiction. Ha le sue sospensioni, le mancate risposte, un fluire caotico. Persino l’ordine mentale che tenta di dare forma al caos della realtà può non procedere per associazioni, allitterazioni, digressioni e affinità. Penso subito al montaggio a distanza di Artavazd Pelešjan, autore sul quale Pietro Marcello ha realizzato un film. Per prima cosa, gli faccio notare quindi come anche lui colleghi a distanza, nel cinema e nella realtà.
Pietro Marcello: In effetti è così. Però ne Il silenzio di Pelešjan ho avuto pochi colpi da sparare e un raggio di azione limitato, ma tutto era ben chiaro fin dall’inizio. Ho deciso di realizzare il ritratto rispettando le condizioni che Artavazd aveva posto prima di iniziare la lavorazione, era nei patti che lui non si sarebbe espresso in interviste o in possibili dialoghi, ed io ho voluto comunque accogliere questa scommessa. Forse in questo caso la distanza è stata troppa. Pelešjan centellina le parole, a volte non parla proprio. Ha un carattere difficile, soffre per la sua inattività e forse per le ingiustizie subite per la sua condizione di armeno a Mosca. Soffre anche per non aver realizzato gli altri film che aveva in mente e ha scritto, le opere della sua vita: Homo Sapiens e il film sulle catastrofi. Artavazd Pelešjan appare come un leone in gabbia.
Leonardo Persia: Mi sembra però che ci sia una corrispondenza con la descrizione di altri leoni in gabbia, cioè Enzo de La bocca del lupo e Arturo de Il passaggio della linea. Penso alla prigione vera del primo e a quella specie di libertà condizionata (dal treno) sceltasi dal secondo. E anche loro sono personaggi, o meglio persone, che appartengono a un altro mondo, a un’altra epoca. Sono uomini in transito, dove presente, passato e futuro si mescolano e si (con)fondono.
PM: Si tratta di uomini difficili, per forza di cose instabili. E tutti, in qualche modo, e in maniera differente, hanno risentito di una mancanza di libertà.
Noto come anche la conversazione di Marcello risulti pure un po’ un viaggio nel tempo. Un moto perpetuo che percepisco dal modo in cui gesticola, svicola, cammina. Persino quando è seduto o totalmente fermo, non si può fare a meno d’immaginare un continuo movimento in cui lui è immesso. Mi piace l’idea di un documentarista che, come qualsiasi altro artista, documenta prima di tutto sé stesso. Trovo eloquente, a questo proposito, la scena de Il silenzio di Pelešjan, dove all’improvviso si vede la sua immagine riflessa, specie di riappropriazione di uno spazio occupato da altri. Gli chiedo quanto anche lui sia «fuori dal tempo».
PM: Sono decisamente insoddisfatto del presente. Trovo che la nostra epoca sia sostanzialmente brutta, inelegante e faticosa da inquadrare. Bisognerebbe scappare dalle città, guardarle solo da lontano, filmare il paesaggio e la natura per poter trovare un’armonia che attualmente è impensabile altrove. Preferisco i volti antichi, gli abiti, gli edifici e le macchine d’epoca. Tutto è disarmonico oggi, mi sento disadattato in questo tempo e faccio fatica ad immaginare un film dove la tecnologia abbia preso il posto di noi uomini.
LP: Fuori dal tempo sono anche i tuoi film e per questo, paradossalmente, risultano moderni. Non mi riferisco soltanto al loro tono nostalgico, al modo in cui evocano un passato migliore perduto. Penso anche alla forma. La bocca del lupo, per esempio, è girato con un formato tipico degli anni ‘40.
PM: È il formato storico del cinema. Ho scelto di utilizzarlo per uniformare le immagini del presente a quelle dei materiali d’archivio ed evitare quindi di snaturarli.
LP: Gli anni ‘40 evocano anche un periodo difficile e doloroso: la guerra, i totalitarismi.
PM: Dalla sofferenza e dalla guerra gli italiani riuscirono a sviluppare un grande senso di solidarietà, la ricostruzione conseguì risultati importanti portando vitalissimi slanci, anche se poi quell’occasione di ricostruire un Paese – un secondo risorgimento – è stata soffocata dall’Italietta di sempre.
Dal punto di vista cinematografico, il neorealismo è la prova della vitalità di quel periodo. A distanza di tanti anni, costituisce ancora l’emblema del nostro cinema, lo spazio dove si è inventato di più.
LP: Il nome del primo regista italiano di quegli anni che ti viene in mente?
PM: Alberto Lattuada. Il bandito oppure Senza pietà sono film chiave del neorealismo.
LP: Forse l’impurità de Il bandito, rilevata all’epoca da Bazin, può essere accostata all’ibridazione delle forme che caratterizza il tuo cinema.
PM: Sono la persona meno adatta ad avere un giudizio sul mio lavoro. Sono sempre influenzato dalle cose che vedo, ma tutto avviene inconsciamente.
LP: Lattuada era un cultore del femminile…
PM: Ai limiti del pericolo, direi. Era una cosa che lo riguardava assai da vicino. Carla Del Poggio era un’autentica bellezza.
LP: Secondo me, la passione per le donne porta Lattuada a distanziarsi dal punto di vista maschilista dell’epoca. È un cineasta attaccato e contemporaneamente distaccato nei confronti del proprio oggetto d’affezione. Da questo punto di vista, trovo delle affinità tra il suo e il tuo cinema.
PM: In che senso?
Alberto Lattuada
LP: Credo che l’essere coinvolto e contemporaneamente non coinvolto nel tema che si è scelto è, secondo me, un punto di vista sempre privilegiato. Lattuada è implicato nel suo discorso perché ama moltissimo le donne. E contemporaneamente mantiene quella distanza dovuta al fatto di non essere una donna. Il suo è uno sguardo curioso e affettuoso, non affine. O soltanto elettivamente affine. Tu fai lo stesso con Enzo, con Arturo, con Pelešjan. Sei come loro e non sei come loro. Provi una simpatia che riesce però a mantenere il distacco. Del documentarista, potrei dire.
Mi guarda con un’espressione che non so se sia di perplessità o curiosità. Ogni tanto Marcello fissa un punto indefinito, ha l’espressione di chi stia scoprendo qualcosa. Mi sembra di scorgervi una famelica curiosità, un’enorme vitalità. Lo vedo rapito, genialmente appassionato, avido di conoscenza. Forse sono stato io ad essere troppo diretto, e la sua risposta si riferisce solo all’ultimo tratto di domanda.
PM: Documentarista? Il mio è cinema e basta o perlomeno questo è quello che provo a fare, e con molta fatica. Il problema di molti cineasti che si definiscono o sono definiti documentaristi è prediligere il contenuto sulla forma. Truffaut diceva che «il cinema è riempirsi la vista». Un film sulla Palestina, per esempio, finisce per coinvolgere esclusivamente per la tematica e il suo contenuto lo rende intoccabile. Nessuno osa parlar male di un’opera che si mette dalla parte degli oppressi. Invece, proprio in casi del genere, bisognerebbe cercare di fare del contenuto forma. Cinema del reale è una definizione che non amo, esprime sempre una nuda registrazione dei fatti. E’ un punto di vista limitato.
LP: Sono d’accordo con te. Proprio rispetto alla distinzione, che ho trovato sempre fastidiosa, tra docu e fiction. E che ha finito per condizionare unilateralmente chi fa cinema, portandolo inevitabilmente a standardizzare le scelte espressive. Tuttavia, un film non fiction ha dei lati di maggiore imprevedibilità rispetto al cinema organizzato in un plot, sia pure aperto al caso e all’improvvisazione. C’è davanti alla macchina da presa il divenire della realtà.
PM: Il segreto sta nel sapersi costruire uno spazio filmico ed essere capaci di sfidare l’imprevisto, operazione basata sull’intuito e sulla razionalità, in questo senso Gianfranco Rosi è un esempio brillante del nostro cinema, un autore maturo che sa sconfinare e trasporre il presente. In Italia è pochissimo conosciuto, ma oltre Ventimiglia sono in tanti ad apprezzare i suoi lavori. Esiste comunque anche una specie di forza misteriosa, trascinante, una sorta di possessione da cinema. Sicuramente il film nasce e muore (ha un inizio e una fine, produttivi e post-produttivi), ma a volte sembra avere a che fare più con la bestia che con l’umano. Anche il montaggio, che è il luogo ideale per l’analisi e la riflessione, non è esente da questa febbre. Al montaggio, io osservo molto, fino al momento in cui il film non mi viene sottratto, fino a quando non me lo tolgono dalle mani. Lo faccio con un’attività febbrile, spasmodica. Quello che mi permette di non ammalarmi è fare film.
LP: Una febbre salutare, allora. E che bella l’idea di cinema quasi come stato di trance!
PM: A riportarmi sulla terra, nell’«umano», è fondamentale il lavoro dei miei collaboratori. Prima di tutti, Sara Fgaier, mio aiuto regia e montatrice, il mio fonico Emanuele Vernillo e il montatore del suono Riccardo Spagnol. Un altro tramite di «umanità» è il lavoro di Marco Messina, sound designer al servizio del film e del cineasta. Un musicista molto tecnico, la cui musica non è scelta per risolvere un problema d’immagine, ma per sposarsi con l’immagine.
LP: Trovo molto musicale il modo tuo di trattenere e dislocare le immagini, come fossero delle note. E, in ogni caso, la musica nei tuoi film è decisamente importante, viene scelta in maniera anche eccentrica, non scontata. Molti si sarebbero aspettati Fabrizio De André come colonna sonora genovese de La bocca del lupo, invece hai optato per Dietrich Buxtehude! Anche in questo caso, sovrapposizione di epoche e diversi materiali.
PM: Buxtehude è stato per Bach un punto di riferimento importantissimo e un suo precursore. In quanto a De André… devo dirti che gli preferisco Lucio Dalla come modello di cantautore italiano.
LP: Lucio Dalla aveva molto amato La bocca del lupo.
PM: La storia d’amore tra Enzo e Mary sembra proprio provenire dall’universo poetico di Dalla.
LP: Devo dire che nei tuoi film sai costruire frame di bellezza estetica insolita, quasi pittorica.
PM: Ho avuto e ho una passione autentica per la pittura, che si è concretizzata anche in diversi acquerelli. Sono un pittore mancato, il cinema è stato un ripiego per me.
LP: Un bellissimo quadro di Lionel Walden, Cardiff Docks (1984), che magnifica le ferrovie, potrebbe essere un fotogramma de Il passaggio della linea.
PM: Ho un’autentica passione per il treno. Sai che a quindici anni sono scappato di casa, prendendo un treno per Parigi?
LP: Beh, il treno è in fondo (già) il cinema. Non solo per via dei Lumière. Gli spostamenti del treno sono anche moti dell’anima e il cinema lo ha raccontato tante volte. Mi vengono in mente pure storie infantili e adolescenziali di fughe col treno viste al cinema. Eva di Gustav Molander e Ingmar Bergman, Paesaggio nella nebbia di Theo Angelopoulos…
PM: Angelopoulos! Per me rappresenta il cinema totale.
LP: Anche lui è un regista del movimento (lento) perpetuo. Chi sono altri cineasti totali, secondo te?
PM: Murnau, di sicuro. Oggi, Aleksandr Sokurov e in Italia, per esempio, Michelangelo Frammartino: amo il suo fare cinema, la sua ricerca continua e poco omologata nel sistema visivo dominante del nostro tempo.
LP: Possibili ascendenti dei tuoi film? La critica internazionale ha paragonato La bocca del lupo ai film di Johan van der Keuken e al Terence Davies di Of Time and the City.
PM: Of Time and the City sono riuscito a vederlo due anni dopo La bocca del lupo. Una copia in dvd mi è stata consegnata dallo stesso regista, che ho conosciuto in Lapponia, al festival di Kaurismäki. Quello di Davies è però un film molto più autobiografico del mio, o forse più esplicitamente autobiografico.
LP: Torno a quello che dicevamo prima, riguardo al coinvolgimento nella propria materia e allo stesso tempo al distacco da essa. L’odio/amore che Davies ha sempre nutrito nei confronti di Liverpool, gli ha permesso di fare ritratti straordinari della sua città. Inoltre, è un autore che sottrae e accumula allo stesso tempo. Credo che anche la tua sottrazione visiva sia (fertilmente) contraddittoria: per via dei numerosi elementi eterogenei presenti nei tuoi film. Quelli espliciti, il found footage de La bocca del lupo, e quelli impliciti, gli squarci digressivi di paesaggio de Il passaggio della linea.
PM: Cosa posso esprimere? Io sono la persona meno adatta, non posso giudicare me stesso, sono troppo miope di fronte alle cose che faccio! Effettivamente ne Il passaggio della linea ci sono molti carrelli «naturali», ottenuti con il movimento del treno, è un film composto e scomposto allo stesso tempo. Mi piacerebbe smontare e rimontare tutto quello che ho fatto fino ad oggi. Ma ci vuole maturità, con il tempo tutto cambia.
Lionel Walden, Cardiff Docks (1894)
LP: Al momento, in Italia sono tanti i giovani autori di documentari. Eppure stenta a decollare una scuola, un movimento. Perlomeno un proficuo scambio di idee, come all’epoca d’oro del nostro cinema.
PM: Oggi si possono rimpiangere le relazioni umane tra i registi e gli sceneggiatori del cinema nazionale d’epoca. Ora, davvero tutto affoga in un totale isolamento. Le scuole sono standardizzate e producono poco. Per quanto mi riguarda, posso però dire di avere un interscambio continuo con altri documentaristi, miei amici.
LP: Pensi che la crisi, in questo momento, possa riportare il cinema italiano a ripensarsi?
PM: Il cinema è stato sempre nelle mani di pochi privilegiati e si sa che i privilegiati cadono sempre in piedi. Chi soffrirà di questa crisi non saranno certamente loro, ma forse le maestranze.
La crisi dovrà sicuramente ricostruire uno sguardo più vergine, ridimensionare il cinema finanziato, anche perché spesso quei soldi sono finiti nelle mani degli stessi parenti, amici e boiardi di turno.
Lo stato dovrebbe finanziare realmente i film d’ARTE e soltanto la tv dovrebbe essere destinata a quei registi che hanno portato in modo ignobile la televisione nel cinema, ovvero lo specchio aberrante della nostra società. In Italia si vuole mantenere un cinema in decomposizione, un cinema fatto di chiacchiere, di salottini e circoletti. Il nostro non è affatto un Paese meritocratico e l’unica possibilità per chi parte dal basso è di fare un cinema povero – non soggetto all’industria del cinema o alle regole dominanti dell’industria culturale – con maggiori libertà e meno compromessi. •
da Rapporto Confidenziale 36 / ottobre-novembre 2012
Pietro Marcello nasce a Caserta nel 1976. Dal 1998 al 2003 ha lavorato come organizzatore e programmatore della rassegna cinematografica Cinedamm presso il Damm di Montesanto, Napoli. È stato assistente alla regia per il documentario, Antonio, di Leonardo Di Costanzo. Nel 2002 ha realizzato il radiodocumentario Il tempo dei magliari trasmesso da Radiotre nel contenitore Centolire. Aiuto regia per il corto Il ladro di Sergio Vitolo, ha realizzato i corti Carta e Scampia (2003). Ha lavorato come operatore e montatore per il documentario di Nick Dines, Fuggifuggi e, nel 2004, ha collaborato al documentario di Giovanni Cioni dal titolo Le anime del Purgatorio.
Nel 2004 ha realizzato il film documentario Il cantiere, vincitore della XI edizione del festival Libero Bizzarri. L’anno seguente ha portato a termine il film documentario La baracca, premio del pubblico a Videopolis 2005. Nello stesso anno ha collaborato come volontario per una ONG in Costa d’Avorio per la realizzazione di un docu-film dal titolo Grand Bassan.
Il passaggio della linea presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2007 – sezione Orizzonti – l’ha fatto conoscere a livello internazionale, «un piccolo film “ferroviario” sui treni espressi che attraversano la penisola di notte», e gli è valso riconoscimenti e menzioni proprio a partire da Venezia 2007. La bocca del lupo (2009), commissionato dalla Fondazione San Marcellin, storia struggente e intensa, a metà tra il documentario e la finzione con inserti da repertori preziosi e poetici, vince il Festival di Torino e molti altri premi nel lungo percorso tra i festival internazionali a cui ha partecipato. Ricordiamo tra gli altri: premio Caligari – sezione Forum e premio Teddy Bear miglior documentario al Festival di Berlino 2010, premio della Giuria Internazionale SCAM 2010 al cinema du Réel, premio della Giuria Internazionale BAFICI 2010 del Festival di Buenos Aires, il David di Donatello e il Nastro d’Argento come miglior documentario. Dal 4 al 10 agosto 2011 è stato presentato al MoMa di New York.
Vedi anche: Passare la linea per ricostituirla. Pietro Marcello a cura di Leonardo Persia
Filmografia
2011 | Il silenzio di Pelešjan • 2011 | Marco Bellocchio: Venezia 2011 • 2010 | Napoli 24 (film collettivo) • 2009 | La bocca del lupo • 2007 | Il passaggio della linea • 2004 | La baracca • 2004 | Il cantiere • 2003 | Carta • 2003 | Scampia