Non essere cattivo è uno di quei film in cui la storia della genesi è parte integrante del film stesso. Inutile ricordare come questo sia l’ultimo lavoro, uscito postumo, di un regista che avrebbe potuto regalarci tanto, in termini umani e artistici, impossibilitato dalla dura legge del mercato. Una legge non scritta e violenta che ci priva costantemente di realizzarci come individui e di godere dei frutti della realizzazione altrui.
Vale la pena ricordare, invece, come questo film sia stato girato nell’Ostia commissariata dopo l’inchiesta di Mafia Capitale: un territorio simbolo dello scempio del devastante potere traffichino e palazzinaro che non è l’eccezione, ma il prodotto tipico di quella legge di violenza di cui sopra.
Caligari gira il suo film in questo deserto, economico, politico, ma soprattutto sociale, e ne parla con commossa partecipazione, facendo risuonare nella polifonia dei suoi personaggi tematiche assolutamente attuali. È una grande lezione di cinema: ci mostra come di esso si possa, tramite la cooperazione tra artisti che si stimano, farne ancora laboratorio di grande arte, luogo di riflessione su quanto ci circonda, un luogo in grado di cambiare il nostro punto di vista. Questo è un film che oggi ci parla di alcune cose, domani continuerà a parlarci di altre, obbligandoci a riflettere su chi siamo, con il coraggio di non cedere allo stereotipo della pacificazione costantemente propinato dai media mainstream, con le loro narrative talora morbosamente pornografiche, altre stucchevolmente concilianti.
Ostia, 1995. Il sole splende sul lungomare, un gelato una pasticca una partita a pallone in spiaggia. Siringhe in giro come moniti – il fantasma dell’eroina e dell’AIDS, maledizione della generazione precedente, raccontata in Amore Tossico (1983), ancora allunga dita nere di morte sulle biografie dei protagonisti, fagocitando speranze e distruggendo famiglie, come la verità che giace dimenticata per comodità, sotto le illusioni del quotidiano. Soldi, ancora pochi, il lavoro scarseggia. Restano le battute al bar dell’incrocio, luogo di ritrovo di vite frenetiche spese cercando di sopravvivere alla giornata. La droga è la porta per l’evasione, per un po’ di momentaneo sollievo da una corsa che sembra non finire mai. Che siano una manciata di pasticche o una dozzina di birre in due, l’importante è fermare il cervello per un po’, quella spia rossa accesa ogni volta che chiudi gli occhi per ricordarti, come se ce ne fosse bisogno, che così non va. Sotto lo sguardo obliquo dell’obiettivo di Caligari – a cui non rinuncia dall’ultima scena, quasi “cristica”, di Amore Tossico e che è la cifra stilistica del più epico L’odore della notte (1998) – erranti ubriachi nella notte ballano una triste ma estatica danza a due tra i fari delle auto, fino all’ultimo goccio nella bottiglia. Nessun posto dove andare, nel buio scolpito dai lampioni miopi, dalle pupille strabiche di veleni. Se almeno fossimo alieni, caduti qui per errore, avremmo la speranza di una casa, altrove.
Due amici di infanzia, stessi occhi chiari che riflettono allucinazioni diverse. Due destini divergenti, legati dalla stessa disperazione. Quando uno riesce a trovare il modo di abbandonare la vita di strada, l’altro rimane solo a lottare contro i suoi demoni. Se uno sopravvive e l’altro muore, non cambia l’amarezza per non aver davvero avuto la possibilità di scegliere, mai. Resta l’incontro ritmato da paesaggi notturni e auto che sfrecciano sotto il sole di personaggi che sono ferite aperte sulla vita, di pezzi di carne slabbrati che a volte combaciano per un po’ di compagnia.
Nei film non mancano topoi melodrammatici, sostenuti però da una scrittura consapevole e intimamente partecipata. Il montaggio è contrassegnato da passaggi dal sapore vintage, in alcuni punti forse troppo didascalico; ma nel complesso le dissolvenze incrociate contribuiscono a dare alla pellicola il tono della parabola: osserviamo una narrazione di personaggi di finzione, esemplare, ma che è icona di tante storie, diverse ma contrassegnate dalla stessa sofferenza, una sofferenza strutturale e sistematicamente imposta in ogni periferia cittadina, abitata da maschere più che da soggetti autonomi.
Nonostante tutto, il film è un affresco vivo di una realtà che non tutti conoscono. Ma chi la conosce non può non percepire in questa commedia dei tipi, che fa ridere e fa piangere, la testimonianza di un dolore antico, lungi dall’essere pacificato. Da una periferia all’altra di tutte le metropoli del globo, il declino di quella che ancora si pretende civiltà ci ha lasciato un mondo di macerie, dominato da rassegnazione, solitudine, egoismo, avidità. I puri di cuore appaiono ai servi come cattivi, ma alcuni, in realtà, non hanno scelta: nati dalla parte sbagliata. La parte di chi ha sempre torto.
In un mondo senza memoria, orfano del futuro, la dipendenza è un modo per sospendere momentaneamente il ciclo della “vita di merda” – nasci, cresci, lavori tanto, non vivi o sopravvivi male, puoi muori. È l’effetto devastante del bisogno di un palliativo, ed è anche uno strumento per chi comanda per criminalizzare alcuni, rabbonire altri. In più, nemmeno la droga è uguale per tutti: se sei nato dalla parte sbagliata, ti fa morire.
In mezzo alle compiaciute autocitazioni, è impossibile non notare la crescita artistica di Caligari: dalla prima docu-fiction, vicina al cinema dimenticato di Nico D’Alessandria più che a quello di Pasolini, divenuto un prodotto di culto per alcune cerchie, al secondo lavoro, un miscuglio di Taxi Driver di Scorsese (1976) e La Proprietà non è più un furto di Petri (1973), con questo terzo lavoro il regista raggiunge un punto di equilibrio cristallino tra cruda realtà e lirismo, tra testimonianza e compassione.
Lo fa lasciando la città lontana, come terra straniera: rimaniamo nei parcheggi, sulle soglie dei locali, al bar, agli incroci, nelle sale da poker sature delle luci dei neon rossi e verdi, nei vicoli tra le porte delle case sorte spontaneamente ai margini di un piano urbanistico disegnato da mani avide di denaro e infami. È nei non-luoghi che si ride, si piange, si muore. Abitiamo indefessamente i margini, le frontiere, gli interstizi di una metropoli grigia e appannata con i palazzi dormitorio che si tuffano nel mare. Si litiga e si piange miseria nei bagni e nelle cucine dei palazzi delle case popolari, e si trova la gioia fugace nei palazzi abbandonati in mezzo a un campo. Solo lontano, in mezzo al verde, in una casa occupata senza autorizzazione, nessuna bolletta: in perenne secessione da una società che non ci vuole e a cui noi non dobbiamo più niente.
“Non lo guardare il mare, che ti vengono i pensieri”: metafora immortale del sublime, il mare che è grandissimo, sconfinato, refrigerio o tempesta fatale, sempre libero, libero come non siamo noi. Lo stesso mare che nel primo film dava speranza, per sempre tradita: il tema del suicidio e dell’autodistruzione, che qui torna, è la vena principale della poetica di Caligari, la sua ossessione, quella che non si è potuta addomesticare nemmeno in trent’anni di motteggi sula sua opera prima, diventata di culto.
La scena più importante è sicuramente quella in cui uno dei protagonisti, disperato, tenta una rapina in un bar di estrema periferia. Entra con una doppietta, che poi scopriremo essere scarica, e intima all’uomo dietro il bancone di dargli i soldi. Vedendo che ha solo trentamila lire, si gira, quasi sconfitto dalla sua stessa furia che non trova nulla su cui scaricarsi, lasciando sul bancone i soldi. Mentre torna alla macchina viene freddato dal bottegaio con una pistola, muore tornato a casa tra le braccia della compagna, mentre la polizia tenta l’inutile e grottesco arresto di un cadavere. Di nuovo emerge il tema della guerra ai ricchi, tema centrale del secondo lavoro del regista, che qui non trova connotazione esplicita, ma emerge dalla riflessione sull’immagine. Infatti, il finale, solo a prima vista pietistico, mostra come tanto la vita senza alcun compromesso, quanto quella che si vuole pacificata tra le mura domestiche, non offrono alcuna redenzione possibile. E’ questa la morale della parabola: eccolo il vostro niente, qui non possiamo che continuare a morire soli, da tossici.
Se è vero che le figure femminili risultano poco approfondite e stereotipate nel loro essere ancoraggio al senso comune, al tentativo di resistere senza cadere negli eccessi; l’apparenza di ciclo che si conclude con il primo piano del figlio del ragazzo morto, non sembra alludere ad alcuna risoluzione e avvicina il lavoro di Caligari a quello dei fratelli Dardenne – soprattutto L’Enfant (2005) e Deux jours, une nuit (2014) – i quali, nonostante lo stile registico completamente differente, non rinunciano a raccontare il mondo tormentato in cui viviamo, in cui da soli, atomizzati, continuiamo a perdere, attraverso gli occhi e i gesti di donne resistenti.
– Giulia Belloni
Non essere cattivo
(Italia/2015)
Regia: Claudio Caligari
Sceneggiatura: Claudio Caligari, Francesca Serafini, Giordano Meacci
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Mauro Bonanni
Scenografie: Giada Calabria
Costumi: Chiara Ferrantini
Produzione esecutiva: Valerio Mastandrea, Moira Mazzantini
Produzione: Simone Isola, Paolo Bogna, Andrea Leone, Pietro Valsecchi
Interpreti principali: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Roberta Mattei, Silvia D’Amico, Alessandro Bernardini Alessandro Bernardini, Danilo Cappanelli, Manuel Rulli, Emanuela Fanelli, Giulia Greco, Claudia Ianniello, Elisabetta De Vito, Emanuele Grazioli
Durata: 100′