La generazione perduta

La generazione perduta
a cura di Dario Agazzi

Non vi pare una superba espressione, “generazione perduta”? Induce a pensare a placidi soggiorni in un confortevole nulla, sdraiati allo spento sole dell’oblio, semi-sprofondati – per meglio dire – nel muffito limbo della dimenticata mediocrità; immersi nell’olezzante afrore di topesche tane cadenti prossime alla polvere, sorseggiando il grog del proprio dispiacere. È quanto mi sento di pensare, volgendo l’espressione al passato, se penso alla generazione di compositori e altri artisti sorta con il Boom economico d’italica matrice, negli anni in cui, alla borghesia discesa dall’abrogata nobiltà, s’affiancava la pittoresca classe dei villan rifatti. Quelli – per citare un caso narratomi da mia nonna, signora d’antan – i quali partecipando alle crociere (allora esclusive), pur avvolti in abiti prescritti dall’etichetta, erano capaci d’estrarre dalla valigia il salame oriundo bergamasco, recato seco in ambienti d’impeccabile decoro, in quanto attaccati al villico sapore della loro terra. Un po’ come nel capolavoro Totò, Peppino e la… malafemmina, che vede i due sommi in una spaziosa stanza d’albergo milanese con i salami e i prosciutti appesi, e chili di pasta recati dal proprio paese, in una tipica diffidenza dell’homo italicus verso ciò che gli è “estraneo”. I compositori nati in Italia nel decennio che inizia all’incirca dal 1964 sono stati per molti versi schiacciati dal peso e stritolati dalle grinfie dei loro maestri, che avevano combattuto in prima fila nella Neoavanguardia, partecipando a uno pseudo-glorioso e fantomatico rinnovamento linguistico, avvenuto con i Corsi Estivi di Darmstadt del Dopoguerra. Facile è colorire di romanticismo color seppia il passato, identificandolo con l’Eldorado, quando il presente ci è sgradito: accade in tutte le arti, nel cinema come nella musica, etc. Maestri più o meno minori che avevano orecchiato qualcosa a Darmstadt riproposero modelli e stilemi che mal si incastrarono nei conservatori italiani olezzanti di tarme e naftalina, abbarbicati a programmi scolastici di stampo fascista (i danni culturali arrecati all’Italia da Croce e Gentile sono tuttora incalcolabili) che nessuno aveva voluto spazzar via con una sonora pedata. In quel rovesciarsi dell’avanguardia in accademia, alcuni decisero di prender le debite distanze tentando d’appigliarsi al cigno di Roncole di Busseto (Giuseppe Verdi): “Tornate all’antico e sarà un progresso!”, dichiarò l’uomo reso bello (o, quantomeno, dal volto interessante) dal ritratto di Boldini. Forse sarebbe stato meglio che costoro s’appigliassero al cigno di Caianiello, alias il maestro Scannagati, alias Totò, oppure al maestro Agostino Miciacio (sempre Totò), che sprezzante d’ogni preterito dichiarava: “Eseguiremo una bella marcia di Giuseppe (sic) Rossini!” (San Giovanni decollato). Resi accademici nel tentativo di contrastare l’avanguardia scolastica, anche questi oppositori degli anni ’80, postmoderni, hanno influito poco sul corso musicale. L’accanita ricerca di un linguaggio personale, già di per sé fallimentare, caratterizzò la “generazione perduta”, in tutti i sensi: che si rivolgesse cioè al passato remoto o al passato prossimo. All’accanita ricerca – pure – di un riconoscimento personale nei grandi editori al tramonto (quegli stessi Tiscordi e Zozzogno così magistralmente definiti in Totò a colori), la “generazione perduta” mi ha rievocate le parole inarrivabili di Nathaniel Hawthorne:

“Voglio la mia felicità! – mormorò alla fine in tono rauco e indistinto, quasi senza articolar le parole. – Molti, molti anni l’ho attesa! È tardi! è tardi! voglio la felicità! – Ohimè, povero Clifford! Sei vecchio e logorato da affanni che non avrebbero dovuto toccarti mai. Sei parzialmente folle e parzialmente imbecille: una rovina, un fallimento, come lo siamo quasi tutti, quantunque certuni in misura un po’ minore o meno appariscente degli altri”.

Dario Agazzi

 



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