E ora che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.
Eugenio Montale, Prima del viaggio.
Il cinema di Ruben Östlund (Styrsö, 13 aprile 1974) possiede la rara capacità d’essere intelligente e mai intellettualistico e il suo Turist (Forza maggiore), presentato a Cannes 2014 e vincitore in quel consesso del premio della giuria nella sezione Un certain regard, mi pare tra le opere più interessanti degli anni ’10 di questo confuso XXI secolo.
Se il suo nome vi dice poco sappiate che con il suo ultimo film, The Square, ha conquistato nientemeno che la Palma d’Oro a Cannes 2017 e che iniziò a fare cinema negli anni ’90 con dei video sportivi dedicati allo sci e allo snowboard – all’interno della crew svedese Free Radicals (forse un omaggio all’omonimo film sperimentale del 1958 di Len Lye?). Dai video sulla neve al trionfo a Cannes il passo non è certo breve e sfido qualsiasi cinefilo a reputare quel tipo di filmmaking come un plausibile primo passo nel mondo del cinema di serie A. Östlund, dunque, rappresenta un paradosso e un caso limite del cinema contemporaneo e pure una tendenza che andrebbe tenuta nella giusta considerazione in un’epoca, come la presente, così diffusamente abitata da immagini in movimento (di natura sempre più varia). Se è pur vero che il regista svedese ha affinato le proprie competenze con una laurea conseguita nel 2001 presso la scuola di cinema di Göteborg, è davvero degno di nota il fatto che il suo primo approccio alla produzione di immagini sia avvenuto con il taglio ipercinetico e adrenalinico dei video di snowboarder e sciatori sulle nevi europee; o, quantomeno, tale dato biografico solletica e conferma la personalissima convinzione circa il fatto che il miglior cinema del futuro prossimo sarà diretto da ragazzi che oggi, in questo preciso istante, si dilettano con linguaggi solo in apparenza distanti dall’ultracentenario cinematografo – e sistematicamente snobbati, tanto dalla critica specializzata, quanto da miopi addetti ai lavori.
Già dal titolo è evidente un certo sfasamento tra la lettura critica compiuta in questi anni attorno al film, soprattutto in Italia, e la sua reale natura, quasi a segnalarne immediatamente la complessa doppia anima e la stratificazione di significati che il testo in questione porta con sé. L’originale Turist lascia il posto, nella distribuzione internazionale, a Forza maggiore (Force Majeure) e, soprattutto in Italia, questo richiamo al diritto (civile e penale), finirà per indirizzare la sua lettura in un’unica dimensione d’esonero della responsabilità di fronte a una imponderabile forza esterna.
Forza maggiore (d. civ.; d. pen.)
S’intende ogni forza esterna che, per il suo potere superiore, determina la persona contro la sua volontà, in modo necessario e inevitabile, al compimento di un atto positivo o negativo.
Si tratta, dunque, di un evento derivante dalla natura o dal fatto dell’uomo che non può essere preveduto o che, anche se preveduto, non può essere impedito.
La (—) viene generalmente assimilata al caso fortuito.
In ambito civile, la (—) rileva:
— quale causa di esonero da responsabilità (contrattuale o extracontrattuale);
— quale causa impeditiva della dichiarazione dello stato di adottabilità. La (—), se ha carattere transitorio, esclude la rilevanza dello stato di abbandono ai fini dell’adozione.
In ambito penale, la (—) rileva solo se costituisce la causa determinante dell’evento, non semplicemente quella concorrente. Inoltre, per invocarla, l’agente non deve trovarsi in condizioni di illegittimità, e deve aver fatto tutto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge. Trattandosi di una forza cui resisti non potest è escluso il nesso psichico dal momento che è proprio tale forza la causa dell’agire umano (art. 45 c.p.).
– Dizionario Giuridico online Edizioni Simone
La storia è semplicissima e costruita tutt’attorno a un’idea fulminea. Una famiglia svedese, madre padre e due bambini, trascorre le proprie vacanze invernali sulle Alpi. Tutto procede in una sostanziale, tranquilla e vagamente noiosa routine vacanziera: colazione, salita alle piste, discesa, pranzi e cene e serate. Durante il secondo giorno di questo soggiorno, mentre sulla terrazza dell’hotel che li ospita consumano un pasto con vista sulla maestosa montagna, un’imponente valanga si stacca dalla cima prendendo a correre minacciosamente verso di loro. In breve si scatena il panico e, proprio quando l’enorme massa di neve pare piombargli addosso, il marito e padre fugge a gambe levate – non senza aver recuperato il proprio smartphone. Il caso vorrà che questa valanga si arresti un attimo prima di travolgere gli ospiti della struttura e, dunque, la sua famiglia. A quel punto l’uomo tornerà da loro ma, da quel momento in poi, ogni rapporto sarà trasformato. La donna, messa di fronte al comportamento del compagno, dovrà fare i conti con il significato profondo dello stare insieme e l’uomo sarà infine costretto a far cadere ogni maschera sociale e a fare i conti con la propria natura. Il film ci racconta tutto quello che succederà alla famiglia, seguendoli fino alla conclusione della vacanza alpina.
Questa la storia. Semplice, come già detto, e al contempo geniale.
Prima di proseguire ritengo possa essere opportuno fare un salto indietro nel tempo, fino al 2009, per tornare a un cortometraggio realizzato da Östlund e che rappresenta un vero e proprio manifesto artistico capace di esplicitarne gli intenti e la poetica.
Händelse vid bank (Incident by a Bank) è uno strano corto che affonda le proprie origini in un’esperienza autobiografica realmente vissuta dal regista. Un giorno gli capitò, nel pieno centro di Göteborg, di trovarsi a pochi metri di distanza da una goffa rapina a una banca. Lì per lì, racconta il regista, non comprese quel che stava capitando, gli eventi parevano piuttosto surreali e confusi. Solo successivamente, riguardando più e più volte le immagini che un po’ in automatico catturò con il proprio telefono, comprese d’essersi realmente trovato in prossimità d’una rapina a mano armata. Incident by a Bank mette in scena proprio questo e lo fa con un’estetica decisamente fredda, prossima alle immagini raccolte dalle telecamere di sorveglianza. Ciò che conta, stando alle dichiarazioni più volte rilasciate da Östlund, è che quel giorno comprese che la realtà può essere decriptata e afferrata solo attraverso le immagini – dunque attraverso il cinema. Il reale è a tal punto saturo di elementi, dettagli e parti in contrasto tra loro che solo la sua trasformazione in finzione narrativa può rendere possibile la sua comprensione. “Il realismo è l’impossibile.”
Il cortometraggio in questione, oltre a essersi aggiudicato l’Orso d’oro per il miglior cortometraggio alla Berlinale 2010, rappresenta un vero e proprio paradigma per comprendere lo stile del regista svedese, il cui cinema – volendo forzare il discorso – rappresenta il naturale punto di contatto tra Ingmar Bergman e Roy Andersson. Da una parte l’indagine prolungata dei sentimenti degli esseri umani immersi in situazioni limite, dall’altro la fissità esasperata dell’inquadratura dentro alla quale osservare gli uomini muoversi come dentro a un acquario. Da Bergman il dramma esistenziale, da Andersson la comicità crudele.
Parlavo di una doppia natura di Turist (Forza maggiore) rischiarata da questo doppio titolo che ha accompagnato, come un equivoco, il percorso di questo film dalla sua presentazione a Cannes.
Ponendo l’accento sul concetto di ‘Forza maggiore’ sarà immediato recepire il film in questione come uno studio, quasi antropologico, sulle reazioni suscitate in un individuo di fronte a un evento imponderabile. La domanda attorno alla quale è costruito il film è dunque: come reagiscono gli esseri umani in situazioni improvvise e inaspettate come una catastrofe?
Goffredo Fofi su Internazionale ha ovviamente proposto una risposta manichea: “Sotto la patina della civiltà, un egoismo primordiale, istintivo, che si esprime qui nella viltà del maschio e nella dedizione ai figli della femmina. (…) È un bel film, disturbante quanto basta, che dice cose vere e sgradevoli soprattutto per chi appartiene al sesso maschile.” Ed è indubitabilmente corretto porre l’accento sulla condizione maschile, perché il film ragiona, soprattutto nella sua prima parte, proprio su quest’uomo incapace di interpretare il proprio ruolo di patriarca e protettore della prole. In conferenza stampa e nelle molte interviste rilasciate, Östlund ha raccontato che l’idea di questo soggetto gli fu sollecitata dal racconto d’una coppia di amici che di fronte a una situazione di grave emergenza, durante una vacanza in America Latina, si trovò in una situazione analoga a quella esposta nel film. Abbondano studi psicologici e comportamentali sugli atteggiamenti tenuti dagli esseri umani durante le situazioni catastrofiche. Dall’affondamento del Titanic, passando per lo tsunami nell’Oceano Indiano del 2004, fino ai fatti di Piazza San Carlo a Torino del giugno 2017 la cronaca ci restituisce comportamenti tutt’altro che solidaristici o cavallereschi, orientati piuttosto alla mera sopravvivenza, in molti casi a discapito dei propri simili, perfino dei propri cari. In situazioni d’emergenza sono certamente gli uomini, più che le donne, i più esposti a disattendere le aspettative sociali, perché la buona creanza e un certo idealismo ci portano a pensare che sia l’individuo adulto di sesso maschile colui che debba adoperarsi per far sì che si mettano in salvo “women and children first”. Ma questo è il mondo delle favole, ciò che ci piace pensare.
In Every man for himself! Gender, Norms and Survival in Maritime Disasters, un interessante studio del 2012 a cura di Mikael Elinder e Oscar Erixson del Dipartimento di Economia dell’Università svedese di Uppsala (citato nel pressbook distribuito a Cannes dalla produzione del film in questione), viene sfatato il mito secondo il quale, nei disastri marittimi, viga la regola della messa in salvataggio di donne e bambini prima di ogni altro. Analizzando una base di dati comprensiva di 18 disastri marittimi nell’arco temporale di tre secoli, i ricercatori svedesi sono giunti alla conclusione con non esista alcuna prassi cavalleresca e che anzi la possibilità di sopravvivenza sia una variabile legata al genere di appartenenza: sopravvivono maggiormente gli uomini e, tra i membri dell’equipaggio, la possibilità di mettersi in salvo è considerevolmente maggiore. Every man for himself!
Viviamo dunque nella convinzione d’un falso mito. È troppo semplicistico (manicheo) leggere il mondo in bianco e nero: la realtà e gli esseri umani sono assai più complessi delle piccole favole menzognere che vorremmo raccontarci, con buona pace di chi ama dormire sonni giusti e tranquilli. Il mito della cultura si scioglie come neve al sole di fronte al terrore che, come un fulmine a ciel sereno, precipita gli esseri umani in una condizione puramente istintuale, di sopravvivenza, entro la quale ogni convenzione sociale svanisce istantaneamente.
Il grande merito del film scritto e diretto da Ruben Östlund è quello di esplorare questo dark side dell’animo umano, indagando, attraverso il personaggio maschile, ciò che superficialmente potremmo liquidare come mera viltà.
Con la comparsa in scena di un amico di vecchia data e della sua giovane compagna, che raggiungeranno la famigliola sulle Alpi francesi un paio di giorno dopo il “fattaccio”, si avrà modo di scendere ancor più nel profondo delle motivazioni irrazionali del comportamento incongruo del padre di famiglia. Questa alterità – ma un amico di infanzia è (anche) una parte di sé – si strutturerà come un doppio sopra al quale compiere congetture capaci di definire il grado di complessità dei sentimenti messi in moto dalla valanga. Il film non si limita dunque a biasimare il comportamento dell’uomo, ma cercherà di comprenderne le motivazioni e i reconditi meccanismi che l’hanno reso possibile, soffermando il proprio sguardo crudele sul frantumarsi delle residuali certezze. Questo aspetto è stato sostanzialmente omesso dalla critica cinematografica, indicandoci una volta di più quanto questa attività, che ci piacerebbe pensare illuminata, sia oramai zavorrata da un pernicioso moralismo, che in ultima analisi coincide con ciò che il film stesso mette alla berlina. Il falso mito dell’eroismo e della virilità priva di paure sono mitologie contemporanee propagandate dai media e dalla società tout court che producono aspettative smisurate e spesso insostenibili.
Turist (Forza maggiore) non narra l’“imperdonabile viltà” d’un uomo, è invece l’esplorazione dei meccanismi attraverso i quali nelle società occidentali avanzate tutto concorra alla rimozione della paura, all’assottigliamento del senso del limite, proiettandoci completamente impreparati di fronte a imponderabili eventi catastrofici.
E poi c’è la vacanza dei Turist…
L’intera situazione è immersa all’interno di cinque giorni da turisti: praticamente l’inferno. Serenità obbligatoria; ritmi serrati punteggiati da attività innaturali, come lo sciare; vita vissuta in un surrogato d’abitazione: esteriormente confortevole, in realtà tutto tranne che accogliente. Particolarmente felice è l’ambientazione scelta, un resort d’alta montagna ipertecnologico: impianti di risalita avveniristici, ogni cosa lucida e perfettina – ma anonima – come nei dépliant d’una agenzia di viaggi. Gli stessi esseri umani sembrano cliché semplificati: l’amica cougar a caccia di avventure, il suo giovane amichetto, il fotografo per famiglie, gli addetti alla reception – ogni aspetto di questa vacanza sulla neve appare alienato e, quel che più ci importa, alienante.
La mattina del primo giorno, poco dopo la prima discesa sulla neve, la famiglia giace esausta in calzamaglia azzurra sul letto matrimoniale. Sfinita. Sono trascorsi poco meno di dieci minuti dall’inizio del film e l’ambiente entro il quale far muovere i personaggi si è già dispiegato completamente attorno a loro – fagocitandoli.
“Il turismo come ricerca di senso, dunque, con le estroversioni ludiche che incoraggia e le immagini che genera, è un meccanismo di comprensione graduale, codificata e non traumatica dell’esterno e dell’alterità.” Così Rachid Amirou ne l’Imaginaire touristique et sociabilités du voyage descrive il funzionamento dell’immaginario turistico che porta l’uomo contemporaneo a compiere vacanze in scenari paralleli alla realtà, resi più semplici e accessibili. Ma quando capita che irrompa la realtà, all’interno della irrealtà turistica semplificata, l’essere umano si ritroverà inopinatamente proiettato in un nonluogo tutt’altro che amichevole, all’interno del quale non sarà più possibile ritrovare alcunché della familiarità del proprio mondo di origine. Östlund lascia fluttuare il quartetto familiare in un nonluogo spettrale attraversato da ombre sinistre e amplificato nella sua natura psicotica dal sound design di Ola Fløttum e dall’acceso e violento violino di Antonio Vivaldi (Le quattro stagioni, Concerto per violino in G minore, op. 8 no. 2, RV 315, “Estate”: I. Allegro non molto. Takako Nishizaki, Capella Istropolitana & Stephen Gunzenhauser).
Questo complesso alberghiero d’alta montagna, isolato e confortevole, avvolto dalla natura, sembra quasi una enclave circondata da un conflitto. È un continuo di esplosioni che provocano valanghe (più o meno controllate, come quella che farà da motore al plot), cannoni che sferragliano il manto nevoso e squarciano il silenzio. È un continuo sfrecciare di motoslitte a tutta velocità nel cuore della notte. È un continuo rendere sicuro ciò che in realtà è selvaggio, dunque incontrollabile, dunque imponderabile. Tutto è immerso nell’illusione della sicurezza. Salendo sulle piste da sci i turisti avvertono una minaccia alla propria incolumità, ma nulla li ferma perché condividono tra loro la certezza che tutto sia controllato. Tutto concorre a produrre l’illusorietà dell’azzeramento del pericolo e della minaccia, eppure il cavo della propria funivia cigola nefasto…
E così uno dei passaggi più interessanti del film avviene proprio quando l’uomo fugge dalla propria famiglia, lasciandola sola di fronte alla valanga. Nel diradarsi della nebbia prodotta dalla neve spostata dall’enorme massa, gli increduli turisti, accertatisi d’essere ancora vivi, torneranno a sedere ai loro posti, tra qualche risata, riprendendo a pranzare e sorseggiare bibite e aperitivi come se nulla fosse capitato.
Durante la visione di Turist (Forza maggiore), e sempre di fronte a un film o un romanzo – e non a un saggio o un testo scientifico –, si fa via via largo l’impressione che il suo autore voglia parlarci d’altro di ciò che galleggia in superficie. Lo stile così asciutto, assertivo e categorico, lascia spazio a una evidente lettura ironica, da una parte, ma pure a una interpretazione assai più vasta che inevitabilmente (s)confina, per il critico, con il rischio della sovrainterpretazione *. “O la critica non è buona affatto, oppure fare critica significa dire di un autore proprio quelle cose che gli farebbero perdere le staffe”, ammoniva G.K. Chesterton.
Dell’ironia di Turist è presto detto, in quanto il testo è disseminato di indizi in tal senso: tutto appare a tal punto meschino da risultare caricaturale (anche i due bambini, in fondo non sono mai, né prima né dopo il “fattaccio”, altro che odiosetti).
Del resto è invece un po’ più complesso dire e confido in un ultimo sforzo di pazienza da parte del lettore che mi vorrà seguire in quest’ultima divagazione.
Aleggia in Turist lo spettro della tragedia imminente. Come già descritto in precedenza attorno ai personaggi risuonano inquietanti scricchiolii di morte: valanghe, esplosioni, viaggi sospesi su funivie, discese su lamine di carbonio lungo dislivelli imponenti amplificati dall’uso allucinato della potenza di Vivaldi. È come se un mondo minaccioso sia lì pronto a colpire, infrangendo la normalità di una vacanza che vorrebbe lasciare fuori da sé il mondo intero. Non è forse la stessa condizione che ci troviamo a vivere in questo XXI secolo attraversato da attentati sanguinari da Londra a Manchester, passando per Parigi e Bruxelles, New York e Madrid, Tunisi, Istanbul, Berlino, Rouen, Ansbach, Wurzburg, Nizza e, proprio oggi mentre scrivo, Barcellona? E non viviamo in fondo lo stesso falso mito di poter gestire con eroismo e savoir-faire una eventuale e sfortunata nostra presenza all’interno dello scenario di un cataclisma o d’una strage?
L’immediato ritorno alla normalità dopo lo scampato pericolo della valanga riecheggia la continua propaganda che dopo ogni strage prende a correre sui media e sui social: tornare alla vita di prima; non lasciarsi vincere dalla paura.
Mi viene alla mente un falso messaggio circolato sui media e addirittura commentato dalla Premier britannica Theresa May a poche ore dagli attentati londinesi del 22 maggio ’17: “All terrorists are politely reminded that THIS IS LONDON and whatever you do to us Wa will drink tea, And jolly well carry on. Thank you”. Ricordiamo gentilmente a tutti i terroristi che QUESTA È LONDRA e che, a prescindere da cosa ci farete, noi continueremo a bere tè. E con gioia andremo avanti. Grazie. Un messaggio falso ma verosimile che, nel giro di poche ore, trovò l’adesione di milioni di persone d’ogni angolo del globo, il cui senso è null’altro che non potrà esistere paura che ci distolga dalle nostre abitudini. E lo stesso avvenne dopo gli attacchi armati nel I, X e XI arrondissement di Parigi e allo Stade de France.
And this is why I LOVE London pic.twitter.com/BertPv0nIo
— Mal Krishnasamy (@MalCPD) 23 marzo 2017
E qui arriviamo al finale del film diretto da Östlund. Un finale letto perlopiù dalla critica come ambiguo e rassicurante – il riferimento, per sintesi, è il solito Fofi –, quando in realtà ai miei occhi rappresenta l’elemento decisivo capace di trasformare Turist in uno dei film più importanti sul nostro tempo.
Conclusi i cinque lunghissimi e traumatici giorni di vacanza i componenti della famiglia, insieme alla coppia di amici, lasciano il complesso alberghiero per scendere a valle a bordo di un autobus di linea. Percorrendo i tornanti abbarbicati sulla montagna (la sequenza è girata sullo Stelvio) il gruppo non potrà fare a meno di notare la guida improvvida dell’autista. A ogni tornante l’autobus si trova minacciosamente a picco sul vuoto e, ad ogni difficoltosa manovra, i passeggeri emettono grida di terrore. Eppure nessuno si muove, tutto stanno fermi, come un gregge. La scena è particolarmente straniante, sembra quasi non avere alcun legame con il resto del film, eppure prosegue, tornante dopo tornante. A un certo punto la donna, la madre, la moglie non ne potrà più e urlerà all’autista di fermarsi e farla scendere. A quel punto tutti i passeggeri, tranne la cougar (scelta divertente!), lasceranno in fretta e furia il mezzo che, ripartendo con passo incerto, li lascerà soli, dispersi sul passo alpino. Le ultime immagini del film ritraggono questo insolito gruppo procedere verso valle, disposto come un corteo, con in testa il padre che tiene in braccio il figlioletto e conduce il gruppo.
E quindi? Cosa significa tutto questo?
Forse il significato di questa strana conclusione aperta è legato all’importanza di avere paura. Ho come l’impressione che tutto il film ruoti attorno all’idea che esistano paure nascoste, paure che vengono tenute in disparte; che tutto il film verta sull’intuizione che sia importante per l’essere umano non doverle continuamente controllare e sopire.
Viviamo in un mondo assediato dalla paura che ostinatamente si applica ad eliminarla.
Viviamo alienati dal nostro stesso sistema percettivo, incapaci e timorosi d’essere conseguenti al nostro istinto. Ciò produce reazioni incontrollate e incontrollabili di fronte a pericoli improvvisi e una continua e costante e permanente sottovalutazione dei rischi concreti.
Con Montale, “Un imprevisto è la sola speranza”. •
Alessio Galbiati
* Personalmente non reputo così problematica la possibilità di imbattermi nella sovrainterpretazione di un testo. Intendo dire che non nutro alcun tipo di fastidio nel leggere della critica che vada oltre le intenzioni dell’autore e nemmeno in quella che stravolge un film, un libro o un qualsivoglia “spettacolo”, per provare a dire “altro”. Anzi. Ciò accade perché non reputo così interessante leggere parafrasi, ma soprattutto perché nutro fortissimi dubbi in merito alle interpretazioni univoche. Tra il determinismo e il relativismo propendo senz’alcuna esitazione per il secondo -ismo, con buona pace di tutta la teologia oscurantista che, malamente camuffata da pensiero liberal, si aggira per il nostro tempo. Turist si presta ottimamente a un sano esercizio sovrainterpretativo, a una deriva sul bordo della tangente, all’apertura del testo per smontarne gli ingranaggi pezzo per pezzo e al tentativo di ricostruirlo con le proprie mani. Del resto: un putto, in un’opera del Mantegna, non rappresenta un angelo bambino, ma la natura immacolata del creato. Se vi guardate attorno abbiamo una critica in grado unicamente di descrivere il dito, traducendo con aggettivi la lunghezza dell’unghia e dettagliando i dermatoglifi dell’impronta, ma mai, salvo rarissime eccezioni, in grado di scrutare e scarabocchiare la luna. Perché dovrebbe importarmi leggere la traduzione della superficie di un film? Che me ne importa se ho il film? Così, con Turist, la critica cinematografica si è soffermata sul dito, la famiglia (invariabilmente borghese) o al più l’uomo (invariabilmente vile), e non sulla luna (la paura).
TURIST (FORZA MAGGIORE)
Regia, sceneggiatura: Ruben Östlund • Fotografia: Fredrik Wenzel • Montaggio: Ruben Östlund, Jacob Secher Schulsinger • Production Design: Josefin Åsberg • Costumi: Pia Aleborg • Scenografie: Josefin Åsberg • Musiche originali: Ola Fløttum • Trucco: Erica Spetzig • Suono: Kjetil Mørk, Rune Van Deurs, Jesper Miller • Suono (mixer) : Andreas Franck, Gisle Tveito, Erlend Hogstad • Casting: Katja Wik, Maggie Widstrand • Interpreti principali: Johannes Bah Kuhnke (Tomas), Lisa Loven Kongsli (Ebba), Clara Wettergren (Vera), Vincent Wettergren (Harry), Kristofer Hivju (Mats), Fanni Metelius (Fanni) • Produttori: Erik Hemmendorff, Marie Kjellson, Philippe Bober • Line Producer: Sofia Aspeheim • Produttori esecutivi: Jessica Ask, Film i Väst • Coproduttori: Marina Perales Marhuenda, Katja Adomeit, Yngve Saether • Produzione: Plattform Produktion AB (Sweden), Parisienne (France), Coproduction Office ApS (Denmark), Motlys (Norway) • Coproduzione: Film i Väst, Rhône-Alpes Cinéma • Supporto alla produzione: Svenska Film Institutet, Eurimages, Norsk Filminstitutt, Nordisk Film & TV Fond, Det Danske Filminstitut – Minor Ordningen, BLS Business Location Südtirol – Alto Adige, Cinémas du Monde – Centre national du cinéma et de l’image, animée – Ministère des Affaires étrangères – Institut français, MEDIA Programme of the European Union, ZDF/Arte in collaboration with Arte, Sveriges Television, C More, DR, YLE • Vendite internazionali: Coproduction Office • Rapporto: 2.35:1 • Camera: Arri Alexa (Hawk Anamorphic Lenses) • Processo fotografico: Hawk Scope • Paese: Svezia, Norvegia, Danimarca, Francia • Anno: 2014 • Durata: 118′
Ruben Östlund | Filmography
1993 | Addicted | Skiing film
1997 | Free Radicals | Skiing film
1998 | Free Radicals 2 | Skiing film
2000 | Låt dom andra sköta kärleken | Documentary
2002 | Familj igen (Family Again) | Documentary
2004 | Gitarrmongot (The Guitar Mongoloid) | Fiction feature
2005 | Scen nr: 6882 ur mitt liv (Autobiographical Scene Number 6882) | Fiction short
2008 | De ofrivilliga (Involuntary) | Fiction feature
2010 | Händelse vid bank (Incident by a Bank) | Fiction short
2011 | Play | Fiction feature
2014 | Turist (Force Majeure) | Fiction feature
2017 | The Square | Fiction feature
Ottima critica, ma io non sotovaluterei la cougar. E’ lei con la sua felicità l’unica a mettere davvero in difficolta Ebba quando le due bevono insieme una birra. Ebba che ha vissuto sempre rispettando i propri valori, vivendo “come si dovrebbe vivere” non accetta di ritrovarsi infelice quando chi secondo lei segue solo l’egoismo si ritrova a essere felice. E successivamente nel bus, “la cougar” è l’unica a restare all’interno. A mio avviso per due ragioni: 1. perché è l’unica che non segue le folle ma ragiona con la sua testa (tutti restano nel bus finché Ebba ferma l’autista e tutti scendono dal bus); 2. La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere (dice Giovanni Lindo Ferretti) e lei è l’unica che vive, essendo in grado di essere in contatto con sé stessa (a differenza di Ebba che vive un ideatlipo di vita e del protagonista Tomas, che parla della sua parte peggiore come se fosse esterna a sé e da combattere).
P.s. perfetta la scena in cui Tomas crede di essere corteggiato da una ragazza, e tutte le sue sicurezze riaffiorano in un lampo.
mai sottovalutare le cougar.
Grazie per la bellissima e stimolante recensione.
L’hotel è un mondo a se stante e perfetto, come tutti i mondi turistici…un acquario che ci permette di osservarci e studiarci come animali da laboratorio, dentro la gabbia dei nostri ruoli e delle psicologie imposte.
Ma la parte più coraggiosa di questa pellicola è, a mio avviso, la contrapposizione degli universi ‘maschile’ e ‘femminile’.
Procedendo, empiricamente e anche giornalisticamente, entrambe le versioni della mattinata della valanga sono infatti assolutamente legittime.
La moglie (la ragione morale): sei scappato e ci hai abbandonato (che aggrava, con ben scelta cattiveria, con il dettaglio dei guanti e dell’ i-phone ma, attenzione, lui, come emergerà chiaramente dopo, il telefono, come i guanti li aveva in mano perché stava filmando!!).
Il marito (l’istinto): non è successo veramente niente, c’è stata una valanga ma stiamo tutti bene, questo è l’importante. Inoltre l’amico del marito ci da un’ulteriore prospettiva sulla realtà: se ci fosse stata veramente una valanga, gli unici in grado di soccorrere gli altri sarebbero stati coloro messisi in salvo correndo più degli altri.
Ognuno dei due ha avuto un comportamento istintivo ma, a posteriori, la razionalità femminile condanna l’istinto maschile.
La situazione finale dell’autobus è anch’essa ricca di spunti e in parte ripropone le stesse dinamiche: è ancora una volta la moglie, con la sua razionalità e iperprotettività a fermare l’autobus e a non fidarsi dell’autista (casualmente un uomo??) e a mettere tutti su una strada in maglioncino, a metà tra il rischio di assideramento e il rimanere vittime di qualche altro incidente (qualcuno commenta poco dopo la ripartenza che ora l’autista sembra non avere problemi).
L’autista e il marito hanno problemi solo nella percezione e nel dubbio ipercritico della moglie.
Meglio ancora: il dubbio della donna profetizza e al tempo stesso quasi determina il fallimento dell’uomo.
Quale è il risultato concreto delle analisi di gruppo messe in piedi dalla moglie davanti a due diverse coppie e di una tale operazione di accusa in generale?
La perdita della sua serenità e di quella del marito (che vediamo poi crollare miseramente agli occhi di tutta la famiglia); non è neanche un caso, in almeno due scene del film, quanto sia infastidita dallo sguardo esterno verso la sua famiglia che arriva da un ‘non pari’; non è attenta al dramma che fa vivere al marito ma a ciò che appare fuori; lei viene anche richiamata con grida dai figli per avvicinarsi al marito piangente e anche in quella situazione è come distaccata.
L’episodio del secondo incidente sulle piste sembrerebbe poi una abile messinscena della donna per cercare di rimette insieme i cocci del marito.
Per non far apparire del tutto tendenziosa questa mia lettura richiamerei anche il gioco che si ripete tra la seconda coppia…lui non riesce a prendere sonno perché la sua giovane compagna mette in dubbio la sua affidabilità ancor prima che egli gliene dia motivo di dubitarne.
Un ultimo accenno, che anche il primo commentatore ha colto bene, per la donna rimasta sull’autobus, che accetta il suo istinto e non lo colpevolizza, il viaggio in autobus continua.
Due anni di psicoanalisi superati da cinque minuti di grida; il messaggio è chiaro…cercare di psicologizzare e psicanalizzare tutto è un vizio e al contempo un pericolo ricorrente dei nostri tempi; l’esigenza di riportare discorsi, specificità e ruoli ad un’unità di discorso e di senso che è, come il mondo degli hotel a cinque stelle, mero artificio.
Loro a piedi sullo Stelvio…la tentazione e l’abbinamento a ‘il fascino discreto della borghesia’ è forte…
(riveduta e corretta)
Grazie per la bellissima e stimolante recensione.
L’hotel è un mondo a se stante e perfetto, come tutti i mondi turistici…un acquario che ci fa osservare noi uomini come animali (la nostra imprescindibile animalità e al tempo stesso la forte struttura culturale) in gabbia , la gabbia dei nostri ruoli e delle psicologie imposte.
Eppure la vera parte più coraggiosa di questo film è, a mio avviso, la contrapposizione degli universi ‘maschile’ e ‘femminile’.
Procedendo infatti, empiricamente e anche giornalisticamente, entrambe le versioni della mattinata della valanga sono assolutamente legittime.
La moglie (la ragione morale): sei scappato e ci hai abbandonato (che aggrava, con ben scelta cattiveria, con il dettaglio dei guanti e dell’ i-phone ma, attenzione, lui, come emerge chiaramente dopo, il telefono, come i guanti li aveva in mano perché stava filmando!!).
Il marito (l’istinto): non è successo veramente niente, c’è stata una valanga ma stiamo tutti bene, questo è l’importante. Inoltre l’amico del marito ci da un’ulteriore prospettiva di comprensione: se ci fosse stata veramente una valanga, gli unici in grado di soccorrere gli altri sarebbero stati coloro messisi in salvo correndo più degli altri. E sia il telefono che i guanti, a rifletterci bene sarebbero strumenti essenziali di soccorso.
Ognuno dei due ha avuto un comportamento istintivo ma, a posteriori, la razionalità femminile condanna l’istinto maschile (il mio è un istinto sano e giusto perché rivolto agli altri, il tuo è malato e sbagliato perché egoistico).
La situazione finale dell’autobus è anch’essa ricca di spunti e in parte ripropone le stesse dinamiche: è ancora una volta la moglie, con la sua razionalità e iperprotettività a fermare l’autobus e a non fidarsi dell’autista (casualmente un uomo), a mettere tutti su una strada in maglioncino, a metà tra il rischio di assideramento e il rimanere vittime di qualche altro incidente (qualcuno commenta poco dopo la ripartenza che ora l’autista sembra non avere problemi).
L’autista e il marito hanno problemi solo nella percezione e nel dubbio ipercritico della moglie.
Meglio ancora: il dubbio della donna è la classica profezia che si autoavvera, determina il fallimento dell’uomo.
Quale è il risultato concreto delle analisi di gruppo messe in piedi dalla moglie davanti a due diverse coppie e di una tale operazione di accusa in generale? Perché la donna non cerca il confronto e lo sguardo diretto del marito (si veda il grande specchio in bagno in cui ognuno guarda se stesso in questa famiglia e raramente direttamente negli occhi l’altro) ma sempre lo espone all’altrui biasimo (chi capisce una situazione di questo tipo, a mente fredda?!?!) ??
Il risultato è chiaro, oltre la perdita della sua serenità, la messa in crisi del marito (che vediamo crollare miseramente agli occhi di tutta la famiglia, ridursi ad essere sostenuto dai bambini, fragilissimi in questa situazione).
Non è neanche un caso, in almeno due scene del film, quanto la donna sia attenta, in frangenti in cui l’attenzione dovrebbe essere totalmente assorbita dal marito, agli sguardi e quindi al giudizio degli altri (l’altro come specchio); non il dramma che fa vivere al marito ma ciò che appare fuori; viene anche richiamata con grida dai figli per avvicinarsi al marito piangente e anche in quella situazione è come distaccata.
L’episodio del secondo incidente sulle piste sembrerebbe poi una sua abile messinscena per cercare di rimette insieme i cocci del marito.
Per non far apparire del tutto tendenziosa e misogina questa mia lettura richiamerei anche il gioco che si ripete tra la seconda coppia…lui, un uomo molto pacato, riflessivo e dolce con la sua donna, non riesce a prendere sonno perché la sua giovane compagna, sull’onda della serata trascorsa, mette in dubbio la sua affidabilità ancor prima che egli gliene dia motivo di dubitarne.
Un ultimo accenno, che anche il primo commentatore ha colto bene, per la donna rimasta sull’autobus, che accetta il suo istinto e non lo colpevolizza, il viaggio in autobus continua.
Due anni di psicoanalisi superati da cinque minuti di grida; il messaggio è chiaro…cercare di psicologizzare e psicanalizzare tutto è un vizio e al contempo un pericolo ricorrente dei nostri tempi; l’esigenza di riportare discorsi, specificità e ruoli ad un’unità di discorso e di senso che è, come il mondo degli hotel a cinque stelle, mero artificio.
Viviamo in una società in cui ogni parvenza di istinto sembra in difficoltà e minacciata, confinata dietro gli specchi, invisibile, come in una stanza degli interrogatori americana.
L’ultima suggestione…i passeggeri dell’autobus in marcia…’ il fascino discreto della borghesia’.
A parte che il film non si conclude col padre che tiene in braccio il figlio ma con l’amico che tiene la figlia, comunque io ho letto il finale in un altro modo….. Tutta sta tragedia ruota attorno al gesto di fuga da parte del padre durante la pseudo valanga. Beh alla fine è la madre che scappa fuori dal pullman senza chiamare la famiglia né nulla, preoccupandosi solo di se nel panico del momento, esattamente come aveva fatto il marito pochi giorni prima. Poi si susseguono questi ribaltamento di ruolo, la ragazza prima dolce che ora cammina avanti sola e immusonita, l’amico che ha in braccio la bimba ispirano protezione, la madre dietro a tutti che ha sbolognato figlio e figlia, il padre avanti al gruppo con il figlio per mano, ora convinto, sicuro e protettivo quando la sera prima era in lacrime….. Insomma tutto è rimesso in discussione e zitti tutti, sembra che l’imprevedibilità prima discutibile delle reazioni umane ai momenti di panico/emergenza ora sia giustificata e accettata da tutti. Neanche i bambini fanno più domande.
Ho avuto l’impressione che l’incidente della perdita degli sci (?) e dello scendere dal bus (sola) siano entrambi un bluff. E’ l’occasione per Ebba di ricomporre i cocci del marito, dimostrando che anche lei ha delle debolezze (da affrontare assieme?).
Concordo e sottoscrivo ogni parola