All’inizio del film, la definizione dello Yorkshire come “God’s own country” (“terra di Dio”) sembra avere un’accezione ironica, per non dire sarcastica: è la terra dura dei contadini, quella sfruttata per l’agricoltura, quella che richiede di spaccarsi la schiena tra animali e raccolti, quella dal cielo grigio anche in primavera, quella che inequivocabilmente vediamo. È qui che si muove, con scarsa convinzione e ancora minor impegno, Johnny Saxby, giovane rampollo di una famiglia di allevatori sulle cui spalle si è rovesciato il lavoro di chi l’ha preceduto: il padre Martin, reso inabile da un infarto, e la nonna Deirdre, il cui unico compito è ormai quello di accudire in modo spartano figlio e nipote senza mai abbandonare lo sguardo severo e contrariato di chi quella terra l’ha lavorata con altro stimolo per tutta una vita.
Johnny, al di là dell’apparente generale assenza di motivazione, non è un personaggio che spinga a provare empatia per lui. Lo vediamo uscire all’alba da un pub dove ha appena vomitato litri di birra per poi concedersi un fugace rapporto, brutale e deprivato di alcun coinvolgimento emotivo che sia anche il mero piacere, con un altro ragazzo della zona (quando questi gli chiede se, prima o poi, abbia voglia di bere una birra con lui, la sua espressione è un misto di repulsione e incredulità) prima di recarsi, con la convinzione di sempre, al lavoro.
È il ritratto di una vita in cui la possibilità di scelta non pare essere contemplata: Johnny sembra navigare senza partecipazione alcuna in una vita tracciata da chi c’era prima di lui e in cui lui trascina stancamente la sua quotidianità senza permettersi di guardare anche un solo giorno oltre.
Questa situazione si protrae sino all’arrivo imprevisto di Gheorge, giovane rumeno ben più competente, bisognoso e di conseguenza motivato di lui, che è giunto in quel luogo come casuale tappa di un viaggio alla ricerca di lavoro. Accolto inizialmente con diffidenza e disrispetto (“Sei Pachistano?”, detto in tono dispregiativo prima di conoscere la reale nazionalità del nuovo arrivato e provare quindi a chiamarlo zingaro), Johnny inizia a conoscere grazie a lui – che in una scena rianima letteralmente un agnello – la possibilità mai valutata davvero di un approccio diverso al lavoro e, soprattutto, lo splendore dei luoghi in cui è immerso.
Le motivazioni di Gheorghe non si limitano però alla sussistenza: lui di quel territorio pare essere sinceramente innamorato e vi si muove con competenza, grazia e piena sintonia mentre si avvicina a Johnny forse anche con lo spirito di chi sente l’impulso di proteggere un’anima che vede come persa. La storia d’amore che ne deriva – e che non può che seguire i caratteri dei suoi personaggi e rivelarsi quindi priva di linearità e soluzioni semplici – non è tanto occasione di riscatto quanto la possibilità di un cambio di prospettiva. E se i villici si oppongono a Gheorghe non per la sua omosessualità ma piuttosto per la sua nazionalità, anche Johnny ci mette del suo, mentre la famiglia pare non provare alcun tipo di opposizione per il rapporto che si sta creando, con la nonna che attraverso un raro sorrisino tradisce di sapere più di quanto avesse fino ad allora mostrato di sapere.
Un secondo infarto per Martin darà a Johnny la consapevolezza che la sopravvivenza della fattoria sarà solo sulle sue spalle, con il fantasma della Brexit (il tema non è mai menzionato ma sembra essere simbolizzato anche dall’opposizione allo straniero) e la conseguente prospettiva della sospensione dei sussidi europei a portare ulteriore peso.
Se lo svolgimento della storia rischierà di riportare Johnny nella condizione iniziale, gli darà anche l’occasione di porsi molte, molte domande in più.
Lee si prende il tempo inizialmente per mostrare i luoghi e i ritmi che impongono al suo personaggio principale, per poi cambiare passo all’arrivo di Gheorghe concentrandosi sulla descrizione dei caratteri inizialmente tutti in opposizione salvo trovare presto un punto di incontro. I personaggi sono descritti con onesta brutalità con Johnny che non risparmia nulla del suo disinteresse – mostrato efficacemente anche dalla rigidità costante dell’espressione del viso – della sua rabbia e della sua disillusione mentre fa di tutto per rendersi antipatico allo spettatore e a chi lo circonda nella storia. Fedele a un naturalismo estetico che ricorda certo recente cinema rumeno, riduce anche i dialoghi allo stretto indispensabile, scegliendo che sia il linguaggio del corpo a comunicare i reali stati d’animo in un film di rara bellezza in cui nulla è superfluo e non vi è mai ricerca di una soluzione accomodante.
Lee mostra di conoscere bene i luoghi e la vita che vi si conduce. Infatti, il film è stato girato nel vero ordine cronologico in una fattoria a pochissima distanza da quella dei suoi genitori in cui lui è cresciuto prima di trasferirsi a Londra. Lee ha utilizzato l’ambientazione rurale per un cortometraggio (The Farmer’s Wife, 2012) e un documentario (The Last Smallholder, 2014).
E così, alla fine del film la definizione citata inizialmente appare deprivata totalmente di intento ironico per essere interpretabile come niente altro che un tributo alla bellezza ruvida di quei luoghi. •
Roberto Rippa
God’s Own Country
(La terra di Dio, Gran Bretagna, 2017)
Regia, sceneggiatura: Francis Lee • Musiche: A Winged Victory For The Sullen • Fotografia: Joshua James Richards • Montaggio: Chris Wyatt • Produzione: British Film Institute, Creative England, Met Film Production, Shudder Films, Inflammable Films, Magic Bear Productions • Interpreti principali: Josh O’Connor, Alec Secareanu, Ian Hart, Gemma Jones • Durata: 105′
https://youtu.be/IcU79EXylmY