Loro due: Paolo Sorrentino e Matteo Garrone e il bisogno che c’è di entrambi

Forse perché del cinema italiano contemporaneo sono i maggiori rappresentanti, almeno per la loro generazione.
Forse perché gli ultimi lavori sono usciti pressoché in contemporanea (a maggio 2015 Il racconto dei racconti e Youth; a maggio 2018 Dogman e Loro).
Forse perché gli italiani hanno un sacro bisogno di creare dualismi fin dai tempi dei campioni del calcio Meazza e Piola.

O forse perché, più semplicemente, Sorrentino e Garrone sono espressione di due modi di fare cinema diametralmente diversi tra loro, così deliberatamente agli antipodi l’uno rispetto all’altro che il pubblico e soprattutto (ahinoi) la critica si sono inventati una rivalità che di fatto non esiste, non è alimentata dai due protagonisti in questione e, cosa più importante, non ha alcun fondamento nemmeno negli strettissimi confini del campo cinematografico, là dove ci vorrebbero dei presupposti un po’ più solidi del semplice sentimento di simpatia/antipatia che si può nutrire nei confronti dei due personaggi.

Per restare in ambito sportivo, visto che è già stato tirato in ballo con Meazza-Piola, ogni sport di squadra ha bisogno di chi ricopra il proprio ruolo.
Nel basket c’è bisogno del playmaker e dell’ala, nella pallavolo occorre un alzatore così come uno schiacciatore, e nel calcio esiste ancora la figura del fantasista così come quella dell’attaccante.

Sorrentino e Garrone sono i “top player” della grande squadra del cinema italiano. Sorrentino potrebbe essere il numero 10, il Maradona (toh, così è contento pure lui), quello tecnicamente ineccepibile, capace di creare follie, ma anche in grado di vincere un mondiale segnando di mano, barando, prendendo in giro tutti.
Garrone è la punta di diamante, quello che ci mette il cuore, che corre, ma è solido, trattiene la palla, “fa alzare” la squadra e segna, conclude le azioni.
O magari un difensore centrale: una diga, una sicurezza, un bastione.

Ne consegue che nessuno dei due sia meglio dell’altro, nessuno dei due prevarica l’altro e nessuno dei due sia più utile o necessario dell’altro. È semplice, invero, ammettere come siano necessari entrambi. E se nel calcio lo scopo è vincere, nel cinema lo scopo è creare immagin(ar)i, dare vita a personaggi, scimmiottarne altri, e (qualche volta) sopravvivere sotto il peso schiacciante del passato, cercare di farsi notare, generare mondi nuovi.

Dovendo scrivere qualcosa su “Loro 2” (e avendo già scritto di Loro 1) e restando folgorato pochissimi giorni dopo da Dogman, più che concentrarmi sull’elaborazione di un discorso critico per ognuno dei due film, mi sono divertito a seguire su internet la querelle del tutto inventata (tutta documentata, tutta arbitraria), nata, cresciuta e alimentata da quel male umanitario che sono i social.

Perché se a nessuno veniva in mente, 50 anni fa, di creare presunte/presupposte rivalità tra Fellini e Antonioni, o tra i loro film, oggi la critica (forse per mancanza di strumenti adatti a definirsi tale) si diverte a voler scegliere chi sia meglio tra Sorrentino e Garrone, dando definizioni di necessità/inutilità (quasi sempre Sorrentino è inutile, Garrone è necessario) che sono più figlie di una personale simpatia che di un discorso di merito, con discorsi che quasi mai si attengono all’oggetto filmico.

Sarà la mia vicinanza caratteriale con Sorrentino, ma personalmente non riesco a non amarlo.
Ma qui, in questa sede, il mio personalissimo sentimento non c’entra nulla.

 

 

Fondamentalmente il buon Paolo è un dotatissimo fantasista, capace di numeri pazzeschi, tecnicamente ineccepibile, però ama troppo tenere la palla tra i piedi, gigioneggia, si pavoneggia e spesso si lascia andare a dribbling inutili. Loro (il 2 in particolar modo) è un meraviglioso esempio della sua capacità di mantenere l’asticella altissima (e per dare credito a questa idea occorrerebbe svelare alcuni dialoghi e alcune scene mancando di rispetto a chi ancora deve vedere il film) alternata ad alcuni momenti che possono perplimere non poco.
Ma Sorrentino chi è? È quello del momento altissimo del dialogo tra Berlusconi e l’olgettina che rifiuta di far parte di quel mondo? Oppure è il regista quasi “soap-operesco” del litigio affettato, didascalico e quasi cronachistico tra Veronica e Silvio?

La risposta sembra ovvia: un campione che ogni tanto si concede qualche inutile vezzo è pur sempre un campione in grado di fare grandi numeri. Un brocco non sarà mai capace di fare i numeri del campione.
Ma la questione non riguarda le doti indiscutibili di Sorrentino, che sono lì da vedere; semmai il “problema” è come lui esprime queste doti.
E quindi sì: Sorrentino è ambizioso, Sorrentino è pretenzioso, Sorrentino SI COMPIACE (parafrasando il Woody Allen in coda al cinema nel suo capolavoro “Annie Hall”). Si compiace perché può farlo e perché ha capito che da quando il suo compiacimento provoca fastidio presso la critica lui ci prova ancora più gusto.
È forse il motivo per cui da Loro ne esce un Berlusconi che ricalca un po’ il mito del buffone simpaticamente affetto da demenza senile. Chi si aspettava una sequela di strali nei confronti di Berlusconi ne rimane deluso, forse perché Sorrentino non ha realizzato il film che qualcuno s’aspettava.
E anche qui, in questo specifico caso, le critiche negative a Loro non sono mai entrate nel merito del pregevolissimo prodotto filmico, ma si sono sempre fermate “in limine”, sulla soglia, valutando con quanta poca cattiveria accusatoria abbia usato Sorrentino nei confronti di Berlusconi, giudicando in base al proprio personalissimo odio nei confronti di Berlusconi, meglio ancora se l’odio s’accompagna all’antipatia per Sorrentino; forse ci si aspettava un documentario alla National Geographic, quasi come se ci si attendesse un normalissimo biopic su Berlusconi e non una raffinatissima operazione di “messa allo specchio” (e alla berlina) dello spettatore?

Quando chiesero a Fellini se il suo pavone in Amarcord fosse in debito con il pavone che Ėjzenštejn pose in Ottobre (e carico di un pesantissimo significato politico e semiologico), Fellini rispose che no, semplicemente gli piaceva e lo voleva mettere.
Prendendo le distanze da ogni paragone/accostamento tra Sorrentino e Fellini (sport che lascio volentieri ad altri) mi piace pensare che alcune discutibili scelte stilistiche, estetiche e cinematografiche di Sorrentino siano il semplicissimo frutto di una scelta personale dettata dal gusto e nient’altro.
Ecco, dunque, che il rinoceronte buttato a caso in Loro 1 non è altro che una provocazione. Non è certo un peccato di hýbris (ὕβϱις), non vuol matematicamente dire che Sorrentino si paragoni a Fellini, semmai può essere visto come un modo per esprimere un concetto, magari un pensiero che prevede l’eventualità di fare un bel film ficcandoci dentro animali a caso, “perché i bei film non devono essere per forza come dite voi”.
O, magari, il rinoceronte è una cosa serissima, pensata, studiata, di cui solo Sorrentino conosce il significato e anche in quel caso può essere una provocazione, in quanto uso del tutto privatistico di un’opera d’arte destinata a un pubblico.
Ma un’opera d’arte non è di per sé una cosa privata e personale?

Sorrentino ringrazia Maradona alla consegna degli Oscar: basterebbe questo per dirla lunga su come ami prendere sfacciatamente in giro tutti quanti, compresi quelli che lo criticano per il grazie a Maradona mentre “Benigni è un genio”, fa nulla se va a ritirare l’Oscar camminando sulla testa della gente.

Garrone, ovvio, è più meditabondo. Lo si vede. Garrone è uno che studia, che si concentra, che ama le atmosfere apocalittiche, che ambienta l’ultimo film in una location che sembra essere uscita da una qualsiasi delle canzoni di Greetings from Asbury Park, che (sempre per restare in zona Springsteen) scrive e filma soltanto di perdenti cronici.
Garrone è, quasi per definizione, quel tipo di regista di cui la critica non può dire nulla di male: realizza film ineccepibili, è una persona assolutamente garbata, non dice nulla di disturbante, non fa nulla di provocatorio e non ha la faccia con quella espressione alla “io so’ io e voi non siete niente” che spesso è stampata sul volto di Sorrentino.

Ma, in fondo, cosa ce ne facciamo delle opinioni personali e delle nostre antipatie, se non per creare pericolosi pregiudizi?
Sorrentino ha realizzato solo splendidi film fino a Il Divo. Poi un discutibilissimo lavoro con This Must Be the Place che ha diviso, ma se non altro la discussione era sulla narrazione e sulle scelte registiche. Poi è arrivato l’oscar, ha fatto “er botto” e da quel momento la discussione si è spostata quasi esclusivamente sul presunto autocompiacimento di un regista ambizioso, che utilizza il dispositivo dell’eleganza estetica, che ama la figura retorica della ridondanza e che però sa realizzare dei momenti di cinema altissimi.

 

 

Per Garrone basterebbe solo la prima frase: “ha realizzato solo splendidi film”. E in alcuni ha raggiunto vette assolute, ha creato uno stile, ha fatto della plasticità e della corporalità/carnalità il suo stilema, ha sempre usato le pulsioni (soprattutto i legami morbosi e i dualismi) come base su cui costruire delle vere e proprie fiabe. Gomorra non è l’attualità di Scampia. Reality non è un film sul Grande Fratello. Il racconto dei racconti non è un tributo a Basile. Dogman non è la trasposizione filmica e cronachistica dei fatti del Canaro della Magliana.
Tutti questi sono lavori sulla necessità di un individuo di realizzarsi attraverso altri individui, siano essi i cani, i mostri, i concorrenti di un reality o le vele. Sono lavori sul bisogno di ogni individuo di trovare una propria identità attraverso gli altri e attraverso il mondo circostante.
Sono film che partono dal reale e arrivano al fiabesco, partono dalla terra e arrivano al cielo.
Garrone ha creato lo “stile alla Garrone”.

Solo l’inquadratura finale di Dogman, che non svelo certo qua, ma che contiene al suo interno alcuni micro-movimenti di elementi artificiali e animali, la dice lunga sullo stile meditabondo e misurato di Garrone, così totalmente opposto alle baracconate dei personaggi di Sorrentino, così silenzioso rispetto ai dialoghi (a volte anche un po’ smaccatamente scontati) di Youth.

Eppure ci si stupisce ogni volta di come si possa pensare che uno sia meglio dell’altro, che di uno ci sia bisogno e dell’altro no e che, peggio ancora, uno sia più bravo dell’altro.
C’è bisogno della sfrontata ambizione di Sorrentino, della sua spavalderia e dei suoi personaggi grotteschi, così come c’è assoluto bisogno dell’eleganza formale di Garrone, dei suoi chiaroscuri e della solitudine, della ferocia dei caratteri che descrive.
C’è bisogno di Sorrentino che fa sue le scuole di Antonioni e Fellini, sempre sulla soglia dell’imitazione, mai scimmiottando, sempre rielaborando, ispirandosi a un passato glorioso senza offenderlo, facendolo proprio e creando un linguaggio gigionesco eppure irresistibile. E c’è bisogno di Garrone che pesca qualcosa da Marco Ferreri, ma soprattutto da quel cinema americano che deve tutto al noir e alla fisicità tutta plastica di corpi immersi nell’oscurità, come Howard Hawks, Fritz Lang, Brian De Palma. E da quella plasticità così carnale e corporale, Garrone riesce a estrapolare tutti i turbamenti di anime perdute nel buio, di dualismi che diventano scambi di ruolo tra vittima e carnefice, di sudditanze psicologiche che sfociano in violente ribellioni, di persone sempre alla ricerca di un posto, pur precario, nel grande gioco di un mondo che sembra rifiutarle.

Loro due, Sorrentino e Garrone, sono due maestri della stessa scuola, insegnano materie diverse e le insegnano bene. /

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

 

immagini by ilcanediPavlov

 

PAOLO SORRENTINO su Rapporto Confidenziale

 

MATTEO GARRONE su Rapporto Confidenziale



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