“Il realismo non è la storia di un rispecchiamento piatto e subalterno, ma di uno svelamento impossibile. Il realismo è una sfida alla natura e alla storia, per questo non può allontanarsene troppo; non può permettersi nessun intenzionale strappo alle leggi naturali e ai pilastri cronologici.”
– Walter Siti, Il realismo è l’impossibile
Qualcuno potrebbe credere che un film in bianco e nero che abbia come protagonista una, come si diceva un tempo? sottoproletaria (Cleo, la domestica di origine mixteca) e si ambienti in un preciso momento storico (Messico, anni 70) ritraendone anche gli aspetti politici di più cruda drammaticità, sia necessariamente un film neorealista. Non è così, o almeno ciò non vale per il film Roma di Cuaròn. Il realismo di quest’opera è tutto nel profondo senso di minaccia che lo pervade, una sottile presenza che scorre lenta e attraversa inesorabile l’ordinario, così come faceva nel più stra-ordinario dei luoghi, nel film precedente: lo spazio siderale dentro cui fluttua sperduta Sandra Bullock in Gravity. Questa fragilissima condizione riguarda tutti, dal bambino di buona famiglia con la tutina da astronauta argentea e super cool, al bambino di periferia che in mancanza di meglio indossa un secchio al posto del casco.
Non c’entra il conflitto di classe, quello ha a che vedere con ciò che accade in strada, con la lotta politica, ma che è presente, a lambire la storia di Cleo, non solo per ricordarci che ci troviamo nel 1971 a Città del Messico durante La Masacre del Jueves de Corpus Christi, ma soprattutto per dirci della condizione dei deboli dentro il moto della Storia e su cui infatti non dobbiamo sapere null’altro se non della violenza che sfiora o rischia di colpire chiunque mentre magari si è presi dagli acquisti al secondo piano di un negozio. Non importa dove o quando, ma la realtà di quel vuoto, il margine di quell’abisso, potrebbe rivelarsi in ogni momento, intessendosi ai giorni della più prevedibile quotidianità, soprattutto se si è poveri e indifesi, come davanti ad una urgenza sanitaria o là dove una conoscenza al posto giusto potrebbe salvare nel momento del bisogno: il privilegio dell’attenzione particolare di un medico, ad esempio. Ma cosa potrebbe metterci veramente al sicuro dal momento che siamo nati tra grida e pianti? lo direbbe con l’immagine del bambino gettato nel mondo senza difese e che conviene consolare fin dalla nascita, il poeta Lucrezio: è La natura delle cose. Quanto è distante dalla retorica del parto e della maternità la scena del reparto di ostetricia: un inferno di corpi e anime in pena. Certo, la condizione sociale determina più di una sfumatura, oltre la comune fragile condizione che accomuna chi viene al mondo: mentre sei sorpreso da un incendio potresti ritrovarti tra coloro che portano pesanti secchi d’acqua nel tentativo di spegnerlo o tra quelli che sbalorditi si aggirano osservando tutto con il bicchiere del cocktail ancora in mano, ma non per questo puoi sperare che le fiamme brucino, per te, un po’ di meno. Sofia, la madre dei bambini di cui Cleo è una sorta di angelo custode, è sola e abbandonata come la sua domestica. E per favore, non ci si lamenti del fatto che Cleo non abbia una coscienza di classe, questo accade nel mondo del neorealismo, non in quello della realtà.
L’incombere del tragico non giunge mai, per quel che riguarda i protagonisti, al più infausto degl’esiti, la minaccia si spegne, sfuma sempre un momento prima del baratro: è come percepire una scossa di terremoto, osservare i calcinacci che precipitano su di una incubatrice, leggervi un presagio e tornare a vivere, con tutte le insidie che questo rappresenta, compreso l’essere piantati in asso in sala alla fine di un film, rischiare di perdersi tra la folla, quasi annegare per l’avventatezza di bambini incoscienti e viziati, attendendo la prossima occasione per dire che, in fondo, si è ancora interi.
Fingersi morti e fantasticarne la pace, la definitiva assenza di minacce e il sollievo che potrebbe rappresentare: è tra le poche battute in bocca a Cleo proprio all’inizio del film, mentre giace distesa accanto al bambino di cui si occupa amorevolmente imitandone il gioco, quando riconosce che non si sta poi così male, in questa assenza di vita, in quel vuoto finalmente privo di insidie, il medesimo che in modo inconfessabile augura a suo figlio, mentre lo porta in grembo e che dice, al termine della storia, tra le lacrime a quelli che la accolgono, a cui resta aggrappata per non cadere e continuare a vivere. •
Maurizio Giuseppucci
ROMA
Regia: Alfonso Cuarón • Soggetto, Sceneggiatura: Alfonso Cuarón • Fotografia: Alfonso Cuarón, Galo Olivares • Montaggio: Alfonso Cuarón, Adam Gough • Effetti speciali: Miguel De Hoyos, Doug Spilatro, Sheldon Stopsack, Alex Vasquez • Musiche: Steven Price • Scenografie: Eugenio Caballero • Costumi: Anna Terrazas • Produttori: Nicolás Celis, Alfonso Cuarón, Gabriela Rodriguez • Produttori esecutivi: Jonathan King, David Linde, Jeff Skoll • Interpreti principali: Yalitza Aparicio (Cleo), Marina de Tavira (Sofia), Daniela Demesa (Sofi), Latin Lover (professor Zovek), Nancy García García (Adela), Jorge Antonio Guerrero (Fermín), Marco Graf (Pepe), Andy Cortés (Ignacio), Nicolás Peréz Taylor Félix (Beto Pardo), Clementina Guadarrama (Benita) • Produzione: Esperanto Filmoj, Participant Media • Colore: Bianco e nero • Rapporto: 2,35:1 • Paese: Messico • Anno: 2018 • Durata: 135′