Tra le pellicole americane, l’orrore si insinua teoricamente a partire dal 1914, anno di uscita di The Avenging Conscience di David W. Griffith. Dico teoricamente perché ci sono naturalmente dei precedenti: ciò che però arriva prima di questo film è in realtà quasi inconsistente, in quanto il cinema è un mezzo ancora poco capace di sfruttare completamente tutte le sue potenzialità (o meglio, lo sono gli autori statunitensi, preoccupati in quel periodo a dare più spessore alle grammatiche e al linguaggio che alle pure suggestioni) e l’opera di Griffith sembra quindi essere l’unico oggetto in grado di sviluppare le giuste tensioni e i primi reali sbilanciamenti verso una forma che verrà successivamente riconosciuta come pienamente horror. Il lavoro del regista americano, dunque, pone le sue fondamenta sul Poe di The Tell-Tale Heart, provando a miscelare una serie di sparute visioni e incubi fino al raggiungimento di un climax che sfocia attraverso il risveglio del protagonista. Griffith è intelligente nel capire dove posizionare i cambi di prospettiva e nel dare più o meno risalto allo scontro tra l’elemento onirico e quello verista, facendo fin da subito comprendere che il primo intento è quello di non abbandonare, comunque sia, la sua personale idea dell’arte e del mondo.
Lo squarcio aperto da Griffith permette ad altri di seguire la prima, effettiva scia di un genere che è ancora, come ho già accennato, in formazione: dal Trilby (1915) di Maurice Torneur al Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1920) di John S. Robertson, dall’intrigante A Blind Bargain (1922) di Wallace Worsley fino al The Hunchback of Notre Dame (1923) sempre di Worsley – con uno straordinario Lon Chaney nella parte del gobbo – in molti iniziano a credere sempre di più nei formalismi del terrore.
E proprio il personaggio di Quasimodo fa di Lon Chaney una star, permettendogli di essere scelto come protagonista del The Phantom of the Opera (1925) di Rupert Julian. È infatti lui il fulcro di questo primo grande tassello di horror puro e definitivamente classico, un corpo che si immola per lo spettacolo, che fa della sofferenza (il trucco a cui si sottoponeva era, non solo dispendioso, ma anche faticoso ed estremamente fastidioso da subire) il motore principale della recitazione. Ma è anche un film fatto di architettoniche trovate, di spazi scenici accuratamente studiati e di momenti decisivi e scioccanti (la comparsa della morte rossa al ballo è la situazione esteticamente più alta e intensa del film). In coppia con questo capolavoro va quello che è forse da considerare uno dei primi esempi di body horror: The Unknown (1927) di Tod Browning. Di nuovo appunto il corpo, di nuovo Chaney che dà mostra della sua incredibile abilità nell’interpretare una figura che finge di non avere le braccia, ma che poi è costretta, per inseguire l’amore, a perderle realmente e definitivamente. Un corpo che si mutila e che cela il bisogno di instaurare una lotta quasi surreale tra la propria parte materica e i propri sentimenti, tra l’espressione reale di una risata isterica e la forza liberatoria di uno spaventoso urlo.
L’orrore nel cinema americano è però – a partire dalla metà degli anni Venti – anche un gioco di visioni e allucinazioni; inizia dunque una fase in cui si comincia ad assimilare molto dai rimasugli di ciò che è filtrato attraverso l’insegnamento dei maestri del cinema espressionista tedesco. In The Magician (1926) di Rex Ingram, ad esempio, la presenza di Paul Wegener che interpreta il folle Haddo sta lì a testimoniarlo e il film è tutto basato sullo scontro con l’impossibilità di comprendere l’elemento stregonesco da parte di una società che crede di essere scientificamente perfetta: da lì scaturisce il motivo per cui i momenti nei quali si mostrano le discese immaginarie agli inferi risultino di grande impatto. Il fatto che l’omuncolo al quale Haddo spera e crede di poter donare la vita non sia mai mostrato, pone un elemento fuori campo che dà ancora più impulsi alla stimolazione delle capacità del singolo spettatore di spronare la propria immaginazione. L’importanza di The Magician sta anche nell’anticipare alcune importanti, future idee: l’immaginario creato da Whale per i suoi primi due capitoli dedicati a Frankenstein, ad esempio, deve molto al lavoro svolto da Ingram sull’ambientazione e la messa in scena del laboratorio-castello di Haddo e non è impossibile intravedere, nel timore suscitato negli abitanti del villaggio sottostante, suggestioni presenti anche nel Dracula di Tod Browning.
L’incrocio però definitivo tra Germania e Stati Uniti, il film che chiude una stagione e permette probabilmente a un’altra (quella che apparterrà in tutto e per tutto ai mostri Universal) di affermarsi è senza dubbio The Cat and the Canary (1927) di Paul Leni. Tutto si condensa in quella spaventosa mano che minaccia l’eredità della protagonista Annabelle West: una parte di corpo che identifica appunto il mostruoso, ma che allo stesso tempo, per come è messa in scena e inserita nell’azione ogni volta attraverso un’attenzione quasi iperbolica, assume i connotati di un elemento grottesco e a tratti comico. Infatti, se volessi essere estremamente puntuale nell’osservare l’apparato formale della narrazione del film di Leni dovrei a tutti i costi notare che l’incontro tra Germania e Stati Uniti avviene proprio sui piani inclinati dell’espressionismo e della commedia: è quasi un modo di accentuare i tratti spaventosamente ridicoli del cinema tedesco a far così detonare la miscela esplosiva di questo connubio. Detto questo, l’opera è solida e decisamente voluminosa nel mostrare tratti stilistici in parte anche nuovi: le soggettive in movimento e le sovrimpressioni, che servono a impostare i primissimi discorsi metaforici all’inizio del film, sono senza dubbio gli elementi più importanti nel dare il via a una sorta di scissione con le modalità dell’orrore per la maggior parte bidimensionale che il cinema americano aveva sempre tentato di utilizzare prima della metà degli anni Venti.
Insomma, fu una storia fatta di luci, ombre e figure introverse, quella del cinema horror americano negli anni del muto. Una storia che provò a spaventare in silenzio, raccontando di corpi mutilati, sguardi inquietanti e pene d’amore. Una storia già piena e ricca di elementi che sarebbero stati, in futuro, la linfa vitale per fare definitivamente delle tenebre la materia di cui sono fatti i sogni.
Gabriele Baldaccini