In una struggente poesia del ciclo 1797-1799 di Friedrich Hölderlin, La brevità, si legge: “Perché sei così breve? Non ami più dunque / Come una volta il canto? Da adolescente, / Quando cantavi, nei giorni della speranza, / Mai trovavi la fine!”. Chiosa se stesso, Hölderlin: il proprio occiduo. Mai si potrà apprezzare a sufficienza la brevità, nel cinema odierno. Specie in quello che viene detto “inedito”. Che ama compiacersi d’una inquadratura, d’un gesto. Per portare al suo sparuto pubblico (quei pochi affiliati in uniforme della Castalia d’Hermann Hesse) l’appagamento d’un addolorato calligrafismo masturbatorio.
Ricordo – mi pare fosse a un Torino Film Festival – d’aver avuta una breve discussione con qualcuno, proprio sul lavoro di Francesco Selvi in ambito cinematografico. Giacché, poliedrico rinascimentale nel paese del Rinascimento inabissato dai sacchi d’immondizia preconizzati dal Buone notizie d’Elio Petri, Selvi scrive (rimando al suo notevole La minestrina, FUOCOFuochino edizioni 2017, con prefazione d’Antonio Rezza), realizza collage ornitologicamente deliziosi. S’occupa di teatro e radiofonie (le vaneggianti lettere alfabetiche per la rivista Rapporto Confidenziale sono solo uno dei vulcanici progetti). Manda missive strampalate e ricercate: ne ricevetti una con il mittente “Duca di Wellington”; un’altra da “Manfred von Richthofen”. All’interno, rebus pressoché irrisolvibili e da lui stesso ideati: Selvi sovrastima le mie capacità di decifrazione. S’occupa di sindromi neurologiche – anche: ma questo ha a che vedere con il Brotgeber. Discussione, si diceva, dalla quale emerse che “il regista deve misurasi con il lungometraggio come lo scrittore con il romanzo”. Quasi la forma breve fosse un di meno. Tutto sta nelle definizioni corrive: allungando un piano sequenza s’otterrà un “lungometraggio”. Annacquando una sapida descrizione in un breve racconto s’otterrà un “romanzo”. Vaneggiando di “strutture” o di “empatie” si costruirà una cinematografia adatta, di volta in volta, all’estimatore della compostezza orientale o al finto-impegnato (purché la sua sedia e il suo cachet siano ben al sicuro) con la retorica dei migranti.
Selvi è sintetico, anzi cominciò folgorante e brevissimo: Ecco (2010) dura 4 minuti. Tutt’ora insuperato per magistero nevrotico e accumulazione lucidamente psicotica, illuminata da colori patinati quanto le copertine delle riviste pop che Selvi usa sfogliare dal parrucchiere una volta l’anno, questo film anticipa la concisione alla quale siamo stati abituati con le fruizioni rapide dell’epoca Social ebefrenica: un film non può durare anche 30 secondi? L’Attesa (2011) dura 10 minuti: un medioevo luccicante da Drive in, che claudica al ritmo di Claviers di Iannis Xenakis. Ponendo dinanzi a inquietudini coloratissime e aggressive. Riducendo il gesto del signore che gozzoviglia a risate impiastricciate nel trucco. Fissità oniriche ed eroticamente turbate. Con Domani parto (2011) si concretizza la consapevolezza della disfatta in 6 minuti. Il sottofondo beckettiano – che dalla seconda metà del Novecento a questa parte non può che far parte di tutti noi, essendo ormai un organo vitale come lo è il fegato – fa intuire quel che saranno i successivi Lontano Ovest (2016), 25 minuti, e Waterloo (2018), 18 minuti; entrambi presentati al Festival di Torino. Costruiti quasi per accostamento e accumulazione, ai quali si contrappone un desiderio di sottrazione – come nei suoi collage, del resto –, questi ultimi lavori anelano a un memento mori che passi attraverso una tendina da campo Quechua. Incurante di qualsiasi abominevole “product placement”. La povertà dei mezzi e l’indipendenza da mode (anche e soprattutto cinefile) sono ciò che renderà sempre interessanti lavori come questi. Dal disseppellimento degli Abba (Waterloo) al West della campagna romagnola; dalla caccia grossa, realizzata con inquadrature tratte da libri sugli animali esotici, a una vena di postmoderno tumulato con la luce kitsch d’un neon. Vissuto da chi (generazione dei rumoreggianti e proto-fallimentari anni Ottanta) ne veda con sguardo ipermetrope – e Selvi ne sa qualcosa – l’irrimediabile e ridicola sfocatura. Il canto ingabbiato d’un uccello: che udiamo a stento. Dopo che il furore della battaglia contro il nulla ha lasciato macerie e calcinacci invisibili. E tutto si faccia stucchevole: diorama di soldatini statuari, vermi al posto dei corn flakes. Croci giganti verso le quali dirigersi in pellegrinaggio: per rivolgere il proprio strillo afono alla notte. •
Dario Agazzi
Francesco Selvi (Cesena, 1980)
filmografia: ECCO (2008, 4 min) / L’ATTESA (2011, 10 min) / DOMANI PARTO (2011, 6 min) / LONTANO OVEST (2016, 26 min) / WATERLOO (2018, 18 min)
La Furia Film