Intervista a Marco Zuin, regista di Hoa
di Emilien Gür
SOLE LUNA DOC FILM FESTIVAL
XIV edizione
Il regista Marco Zuin ha presentato il suo documentario Hoa alla 14. Edizione del Sole Luna Doc Film Festival. Questo cortometraggio racconta la vita quotidiana di Hoa, una guaritrice appartenente alla minoranza Dao, che vive in un villaggio nel Vietnam del Nord. Il film la segue nel suo lavoro, mentre raccoglie le piante medicinali nella foresta per guarire la comunità con l’aiuto di sua figlia Chiem e della sua famiglia.
Emilien Gür: Come si è sviluppato il progetto?
Marco Zuin: Stavo girando un altro documentario a Trento, dove ho conosciuto Francesca Anzi di GTV. Aveva visto il mio cortometraggio La sedia di cartone, un documentario girato in Kenya che racconta la storia di un piccolo bimbo disabile per cui un gruppo di fisioterapisti ha costruito una sedia in cartone riciclato. Le era piaciuto molto il modo in cui avevo raccontato questa storia. Mi ha raccontato la storia di Hoa, una donna che porta avanti una tradizione della coltura piante applicate alla medicina. Mi ha parlato del fatto che da giovane lei non voleva fare quel mestiere, che poi la vita l’ha portata a farlo. Sentivo già che era una storia che era nelle mie corde: racconto sempre il quotidiano di persone; come regista cerco di essere invisibile, a metà tra l’etnografico e delle incursioni non propriamente etnografiche. In più, dopo tant’Africa si apriva uno spiraglio in Vietnam, dove non ero mai stato e che avevo voglia di conoscere. Ho coinvolto Roberto Cavallini di Altrove Film e abbiamo fatto una serie di Skype con le persone che gestiscono la cooperazione tra Italia e Vietnam. Ho conosciuto Hoa solo quando siamo arrivati in Vietnam. Ho scoperto che la storia che mi avevano raccontato era un po’ romanzata rispetto alla realtà. Come spesso capita in campo documentaristico, devi interpretare la realtà che trovi e cercare di capirla, anche in breve tempo.
EG: Quanto tempo sono durate le riprese?
MZ: Siamo stati una ventina di giorni, ma tecnicamente abbiamo girato sette o otto giorni, con intervalli di tre giorni a volta, perché c’era una festa popolare. Era il primo maggio, Hoa andava a trovare sua sorella, molto distante, e non voleva che noi intervenissimo in questo frangente. Quindi ci siamo presi una pausa tra una riprese e l’altra.
EG: Qual è stata l’attitudine di Hoa riguardo al progetto? Come si è sviluppato il rapporto con lei?
MZ: A me non piace subito filmare. Mi piace osservare la realtà prima, cercare di capire le cose che mi colpiscono per poi raccontarle in secondo momento. Quando hai pochissimo tempo, non riesci sempre a farlo. Però Hoa si è mostrata subito estremamente disponibile, come se non ci fossimo, continuando a andare avanti con il suo lavoro. Abbiamo iniziato prima con le cose più pratiche del suo lavoro, per esempio mentre lei sminuzzava e preparava le piante. Siamo entrati piano piano nel suo lavoro e abbiamo visto che non aveva difficoltà a essere filmata. Poi abbiamo avuto occasione di trovare un bimbo appena nato, a cui lei faceva una cura per la pulizia del corpo, e abbiamo colto il momento per filmarlo. Hoa insegnava alla nuova mamma come prendersi cura del bambino attraverso la preparazione di un bagno con un determinato tipo di erbe per ammorbidire la pelle, pulirla, ecc…
EG: Il film segue il ritmo del lavoro quotidiano di Hoa, ma anche quello della costruzione di un ponte. Come hai lavorato su questo incrocio tra diversi ritmi?
MZ: Quando siamo arrivati al villaggio, abbiamo visto questa enorme costruzione che tagliava in due la foresta. Abbiamo pensato che doveva entrare nel film, perché l’economia di una famiglia come quella di Hoa è legata a un ritmo di vita molto semplice. Era importante rendere conto del fatto che una costruzione di questo tipo avrebbe senza dubbio distrutto parte della foresta e avrebbe così, molto probabilmente, danneggiato il patrimonio di biodiversità, in particolare le piante, oggetto centrale del nostro film. L’economia che si muove attraverso una costruzione cosi gigante avrebbe chiaramente minato il modo di vivere della famiglia di Hoa. Il ponte, però, in qualche modo, sarebbe servito anche a lei per fare conoscere di più il suo lavoro. È una questione sempre delicata: c’è una tradizione, che si tramanda di madre in figlia, però ogni generazione poi la cambia o la interpreta. Per esempio, la figlia, che con il telefonino sembra passare del tempo su Facebook, in realtà sta raccontando le piante medicinali a delle persone che probabilmente sono molto distanti. Probabilmente il suo modo di interpretare la tradizione sarà quello di spedire i pacchi in giro per il Vietnam, e quindi allargherà questo sapere in altri campi.
EG: Il film è attento non solo alle grandi cose come la costruzione del ponte, ma anche a questi piccoli dettagli della vita quotidiana. Come descriveresti l’attenzione che porti a quello che c’è attorno a te quando stai girando?
MZ: Cerco di osservare le cose, le relazioni che ci sono tra i vari personaggi che provo a conoscere. Quando ci sono delle cose che mi emozionano, cerco poi di ricostruirle nel film, non solo al livello della narrazione, ma anche proprio al livello dei personaggi. Inizialmente il pensiero era di seguire Hoa e sua mamma. Però da subito abbiamo visto che non era un personaggio cosi interessante come mi aspettavo. Invece la figlia, con questo spirito innovatore rispetto alla tradizione, mi ha colpito. È diventato lo spunto per riflettere anche sulle tradizioni e sul passaggio di testimone. Chiunque viene da un piccolo paese, da giovane, ha sempre questa spinta a andarsene o a non seguire le norme dei genitori. Hoa, in un piccolo villaggio del Vietnam, fa probabilmente la stessa cosa che fanno i ragazzi siciliani nei piccoli paesi lontano da Palermo. Chiaramente la vita di Hoa è molto più semplice rispetto a quella a cui noi siamo abituati. Però alla fine i desideri sono gli stessi. Fare delle esperienze magari lontano dai propri genitori, oppure prendersi cura dei figli sono le cose che ci uniscono.
EG: Il tuo documentario si distingue per la sua atmosfera immersiva. Come hai lavorato al montaggio per crearla?
MZ: Abbiamo scomposto e ricomposto le scene in diversi modi per trovare ciò che ci convinceva di più, anche eliminando le scene a cui c’eravamo affezionati ma che non funzionavano nell’insieme. Abbiamo cercato di costruire questo arco narrativo della ricerca delle piante, tutta questa immersione nel bosco. Abbiamo utilizzato una colonna sonora molto semplice che si aggiunge alla voce del bosco, per poi mostrare che tutta questa fatica è fatta per prendersi cura di un neonato, una cosa quotidiana, molto semplice. Ci piaceva avere questa struttura per alternarla con la costruzione del ponte, di cui si capisce poco nel film. Però incombe nel quotidiano: a causa della costruzione del ponte, Hoa deve fare una sorta di slalom con il motorino per accedere al bosco.
Abbiamo cercato di non essere troppo didascalici. Non è vengono date spiegazioni. La cosa che mi piace trovare nei film e che provo mettere nei miei, è raccontare delle storie, dare agli spettatori l’occasione di immergersi in una vita che altrimenti non gli sarebbe mai capitato di vedere. Se uno vuole guardare un film turistico sul Vietnam, può andare a vedere documentari appunto giornalistici, e trovare magari più interesse nell’essere informato sul posto. Invece il mio film si concentra proprio sulla persona, su quello che vive, su quello che ci sembra simile, su quello che ci sorprende. Si vede una quotidianità semplice, che si ripete con dei riti, con dei gesti molto banali. Quindi ho voluto creare un film che è molto semplice, come se la regia non ci fosse, nel senso che non si vede mai la presenza di un regista che vuole fare vedere movimenti di macchina o cose particolari. C’è un rispetto proprio della persona, dell’individuo che sta cercando di portare avanti la sua vita.
EG: Hoa ha visto il film? Qual è stata la sua reazione?
MZ: Non so ancora se ha visto il film. Mi hanno detto di sì, ma non ne sono convinto. Infatti, mi piacerebbe tornare nel posto e organizzare una proiezione del corto e poi parlare di come questi italiani sono andati in un posto lontanissimo da loro. Siamo degli alieni che vanno in un posto e cercano di capirlo.
Palermo, 12 luglio 2019