Due occhi diabolici. Lo sguardo dei mostri nella Hollywood degli anni Trenta

Sull’invasione di Hollywood da parte dei mostri immediatamente dopo la crisi del 1929, David J. Skal scrive: “Risorti da lastre di marmo, risvegliati bruscamente dalla vitalità dell’età del jazz, furono abbastanza forti da fare a modo loro in quella triste e ormai trasformata America. Era il momento che gli dei oscuri avevano atteso da tempo. In quel mondo di sconvolgimenti sociali e di crisi economica, la loro notte sarebbe stata eterna” (David J. Skal, The Monster Show: A Cultural History of Horror, Faber and Faber, New York 2001, p. 111). Una visione sicuramente poetica ed elegantemente metaforica che però centra anche il fulcro della questione. I mostri, i vampiri e tutte le altre creature della notte si erano riversate in frotte sugli schermi dei cinema americani e avevano iniziato a popolare gli incubi di molti spettatori. Le entità mostruose erano una risposta alle paure trascinate dalla Grande Depressione, erano un ritorno del represso: un modo per guardare in faccia l’oscuro volto del terrore e poterlo in qualche modo esorcizzare. Ma come si manifestava questo terrore? Quali erano le tematiche più utilizzate e le funzioni espressive più ricercate? Tra quelle principali e più eclatanti ce n’è sicuramente una che prevale ed è quella dello sguardo ipnotizzante del mostro e del suo potere ammaliante.

In Dracula (1931) di Tod Browning, la figura interpretata da Bela Lugosi è aristocratica, ieratica e impone una sorta di modello per quello che sarà il modo di intendere il vampiro per molti dei suoi successori sugli schermi cinematografici di tutto il mondo. Quello che però più interessa e attira la nostra attenzione è appunto lo sguardo dell’attore ungherese: ipnotico e profondo come mai prima di allora. L’accentuare un certo tipo di espressione rigorosa e ammaliante era un aspetto sul quale Browning aveva puntato molto: era probabilmente lo stesso Lugosi a rendere tuttavia semplice comprendere quale tipo di atteggiamento stilistico si sarebbe dovuto scegliere per evidenziare ancora meglio i suoi atteggiamenti recitativi, in quanto l’intensità che donava alla sua interpretazione aveva a che fare con un modo di percepire il vampiro veementemente legato alla sua dimensione più intima e personale. Come infatti scrive Edgardo Franzosini, “Quando recita la parte del vampiro, Bela recita ormai la parte di se stesso. Il suo agire, insomma, è già altro rispetto alla creazione artistica di un personaggio: è la realtà” (Edgardo Franzosini, Bela Lugosi, Adelphi, Milano 1998, p. 107).

Si capisce quindi come i volti e gli sguardi dei personaggi prodotti da questo nuovo immaginario siano dunque fondamentali per dare spessore alle mostruosità di molti degli esseri messi in scena. Ma è facile allora trovare altri esempi efficaci e molto vicini al Dracula di Lugosi. Nella tragica storia di Svengali (1931) di Archie Mayo, questo maestro di musica alla ricerca di un amore impossibile possiede uno sguardo che diventa il veicolo principale attraverso il quale attivare due funzioni in contemporanea: i suoi occhi, una volta trasformatisi in bulbi vividi e opachi, rivolti verso la macchina da presa, ipnotizzano la povera Trilby nello stesso istante in cui terrorizzano lo spettatore. E l’anno successivo, nuovamente Lugosi mette in atto quello maligno e ammaliante di Murder Legendre in White Zombie (1932) di Victor Halperin, che decide ogniqualvolta lo desideri quella che sarà la prossima azione da dover far eseguire al malcapitato di turno; uno sguardo del destino, che determina chi vivrà e chi morirà. Questo stesso sguardo sarà anche esso, ancora una volta, uno sguardo diretto allo spettatore, come se dovesse convincerlo che anche lui potrebbe a breve diventare un morto vivente.

Lo sguardo che però identifica questa volontà all’ipnosi si stratifica in un film che è forse il più emblematico per questo tipo di relazione: The Mummy (1932) di Karl Freund. In una sequenza in particolare, tutta la sua forza si manifesta e si rende esplicita: quella nella quale Ardath Bey attira Helen nella sua dimora e le mostra, nell’acqua contenuta in una vasca, la storia che li ha visti protagonisti millenni prima. Ardath Bey era il sacerdote Im-Ho-Tep ed Helen era la figlia del faraone. Come fa notare Ruggero Eugeni, “La somministrazione delle immagini del flashback a Helen avviene in un clima da esperimento di ipnotismo. Risaltano in particolare due componenti della relazione ipnotica: all’elemento di controllo dello sguardo attuato dal soggetto ipnotizzatore sul soggetto ipnotizzato, si salda l’elemento del recupero memoriale, del ricordo, del ritorno del rimosso e quindi della ridefinizione narrativa dell’identità al di là dei normali confini e delle cornici di spazio, tempo, appartenenza culturale” (Ruggero Eugeni, La relazione d’incanto. Studi su cinema e ipnosi, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 201). E anche qui, questa azione viene esercitata nei confronti dello spettatore: Ardath Bey infatti rivolge il suo sguardo non solo verso Helen ma anche verso la macchina da presa. Di nuovo la volontà di esprimere una doppia funzione che renda più entusiasmante e coinvolgente l’intera azione.

Ma se da una parte, nei confronti dei personaggi protagonisti di queste pellicole, gli sguardi ipnotizzanti sono sguardi che appunto tendono al controllo della persona o al risveglio di elementi che sono stati rimossi, per lo spettatore questi stessi sguardi sono espressi in relazione del qui e ora. Lo sguardo in primo piano o in macchina del mostro tiene allora desta l’attenzione e aumenta il realismo di un orrore che si assume il compito di esercitare l’unica azione veramente necessaria e indispensabile nei confronti di chi assiste allo spettacolo: spaventare.

Gabriele Baldaccini

 

 

vedi anche
speciale UNIVERSAL MONSTERS
Il fantasma dell’opera, L’uomo invisibile, Frankenstein, Dracula, La mummia, L’uomo lupo, Il mostro della laguna nera: i mostri della Universal e la creazione di un genere
a cura di Roberto Rippa



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